domenica 16 dicembre 2012

Fame




- Qualcuno che ha più fame di me… - questo ho pensato vedendola, mentre mi stavo avviando deciso verso il banco dei formaggi. Mi sono fermato di colpo. Magrissima, pallida, bel viso, capelli biondi lunghi raccolti, spaziava con lo sguardo sulle meraviglie dello scaffale della frutta. Pesche, albicocche, uva, ananas, meloni. Frutti di tutte le stagioni, di tutti i paesi, di tutti i colori. Guardava e non guardava. Era assente, distante, come se i suoi pensieri fossero rivolti a un altro mondo.  Mi metteva una gran tristezza, così ossuta e spersa. Si capiva che era da un bel po’ che non mangiava, ma  questo mi faceva strano. Ci sono tanti modi per far su qualcosa. Forse non ci sapeva fare , o aveva paura, o si vergognava, o più  facilmente non mangiando da tanto tempo il cervello non girava più come doveva, capita. L’ho aspettata all’uscita, anticipandola. Lei ha preso  uno smalto per unghie viola, l’ha pagato…. Mentre arrivava lenta mi sono affiancato a lei per strada, e si è spaventata.  
-          Vuoi? – ho tirato fuori dalle tasche le albicocche - Sono dolcissime sai? Per me sono troppe. Ne ho prese tante. Prese, rubate.
Lei ha sorriso, scrollando la testa
-          Dai, guarda che belle, sono mature…
Ne ha presa una.
-          Grazie.
-          Mangia.
-          Ora no, la tengo per dopo… Grazie, sei gentile. Ma… non eri alla cassa, davvero le hai rubate?
-          Certo.
-          E non hai paura?
-          Non mi hanno mai preso, sono bravo. Arrivando all’ora di chiusura le commesse non dicono niente al direttore, non hanno voglia di uscire tardi per me. Poi non esagero mai…Ma tu avevi i soldi per pagare  questo coso, perché non hai  preso qualcosa da mangiare? 
-          Non mi serve niente. Ora vado…
-          Sei bella sai.
Aveva la pelle così bianca, come di ceramica. E gli occhi azzurri come il cielo. La fame gli occhi non li rovina. Ci siamo salutati e lei, allontanandosi, ha infilato l’albicocca nella tasca del cappotto. Sono rimasto un minuto a guardarla mentre se ne andava, e poi sono tornato ai miei pensieri. Nella fretta di raggiungerla mi ero dimenticato del formaggio. Andrò all’altro supermercato, qui vicino. Devo sbrigarmi, rischio di trovare chiuso.
Malata, sarà ammalata, poverina.  Io in fondo ho solo fame.

Come vorrei sentire qualche volta appetito! Da quando faccio la commessa in questo supermercato, al banco panetteria e pasticceria, odio il cibo. Odio questi dolci. Odio le focacce, i biscotti, i pasticcini, le brioches; ancor più odio le torte con la crema e la panna, e anche le crostate alla frutta,  e fin anche il pane. Mangio poco, senza appetito. E inspiegabilmente ingrasso. Ecco la signora Maria. Lei sì può avere fame. Compra pochissimo. E si fa dare ogni giorno un sacco di pane secco. Le regaliamo anche il latte prossimo alla scadenza che ci avanza la sera. A volte le diamo anche cose che si potrebbero ancora vendere, perché ci fa pena. Chissà cosa ne fa di tutto questo pane.
Ed ecco il solito ladruncolo. Viene tutti i giorni, la titolare non ne può più. Ecco che prende il telefono. Questa volta non la farà franca.

Venite gattini, quanta fame! Se non ci fossi io! Ecco il latte per i piccolini.  Ecco la carne cruda per te Mia, vecchiettina, quella che ti piace, lo so non mangi altro.  Venite qui in quest’angolino, non posso farmi vedere dai vicini, non vi vogliono. In verità lo sanno che sono io che vi do da mangiare, ma non osano dirmi niente, perché sono vecchia. Pensano vecchia pazza, presto morirà, così ci liberiamo dei gatti. Vediamo un po’, ci siete tutti? Manca Tigre…avrà trovato una gattina, il solito viveur… Ecco Nerina, possiamo iniziare. Io so quel che pensano. Pensano vecchia pazza, con la pensione minima dà da mangiare a 10 gatti. Magari non mangia lei…Un po’ è vero, io mi faccio la zuppa col latte la sera e a mezzogiorno la minestrina e una mela. Ma questo mi basta e avanza. A loro cosa importa? Io non ho fame, sto bene così. E per il momento non gliela do la soddisfazione di vedermi morire… Che ne sarebbe di voi, micini cari…

Mi sono svegliata nel cuore della notte con una gran fame. Da tre mesi sono a dieta, e ho retto bene sinora. Veramente sarebbe corretto dire  che da vent’anni sono a dieta. Cioè mi metto a dieta, dimagrisco, ad un certo punto sono presa da una fame smodata e riprendo a mangiare voracemente e di tutto. E ingrasso. Poi mi sento in colpa e mi faccio così schifo che mi rimetto a dieta. Non sempre i tentativi di dieta riescono, a volte sospendo fin da subito. A volte resto magra per alcuni mesi o addirittura anche per un anno, e in quei brevi periodi mi piaccio molto, sono proprio felice. E ora non vorrei cedere…mi rigiro nel letto cercando di pensare al altro.
Dato che il mio peso cambia continuamente ho un armadio pieno zeppo di vestiti di tre taglie diverse. Quanti soldi si spendono in vestiti, cambiando continuamente peso! Non so se faccio bene a conservarli tutti. Si sa, le mode cambiano...Tornando al peso di dieci anni fa tiro fuori gli abiti small di allora, ma  non mi piacciono più, e mi preparo a nuovi acquisti.
L’ultima dieta è stata particolarmente efficace. Ho messo insieme le conoscenze acquisite in venti anni di esperienza (di diete ormai so tutto). Ho perso otto chili, e sono tornata al mio peso ideale. Non è stato un sacrificio. Ho sempre dosato tutti i cibi, effettuato compensi quando mi è capitato di mangiare un quantitativo maggiore del previsto di pasta o pane…stare a dieta vuol dire pensare sempre solo a mangiare. Impegna tempo, soldi e energia. Serve anche attività fisica. Altro tempo, altri soldi. Dimagrire – dimagrire bene - non è semplicemente rispettare una regola, non è stile di vita, non è scienza…è un’arte.
Questa notte però è successo qualcosa che non mi era mai successo prima.
Mi sono svegliata con questa grande fame. Ho perlustrato i mobiletti della cucina e il frigo, ma non ho trovato nulla di interessante.  Il frigo di chi sta a dieta è una desolazione. Qualsiasi tentazione è tenuta sapientemente alla larga: niente merendine, niente biscotti, niente noccioline e patatine, niente nutella, per carità… Durante la perlustrazione mi è caduto l’occhio su di una pentola sul fornello. L’ho depositata sul tavolo e mi sono messa a mangiare il contenuto direttamente dal tegame, senza neppure versarlo in un piatto. Squisito. Ci saranno state almeno tre porzioni e le ho mangiate tutte. Riso, verdurine tenere affettate (carote, zucchine e erbette),  pezzettini di carne tenera di manzo. Ingredienti di prima qualità. Ho aggiunto giusto un po’ di sale e  appena un goccio d’olio extra vergine. Il riso in verità era un po’ scotto – il veterinario raccomanda una cottura lunga – ma comunque saporito. Luna osservava attenta e un po’ contrariata, e ad un certo punto si  è messa a uggiolare. Si è calmata subito rendendosi conto che doveva trattarsi di un evento eccezionale, che giustificava la sparizione della sua pappa. Non toglieva gli occhi dalla pentola ormai vuota. Ma non era successo niente di grave: era solo fame.  

Finalmente è arrivato internet al tuo villaggio! Non mi sembra vero che le mie e le tue parole volino sopra le montagne e i boschi, il mediterraneo, le città di mare e di vacanza sulle coste dell’africa, il deserto, luoghi che immagino e non conosco…e mentre io scrivo tu sei già lì che leggi. Siamo vicini.
Da tanti anni ci scriviamo per lettera, e tante cose abbiamo sempre da dirci. Sono passati cinque anni dalla prima cartolina. Tutto è nato da un’adozione a distanza voluta dai miei, quando ero un ragazzino, e pian piano siamo diventati amici. Allora pensavo alla tua fame, mi sembrava bastassero 25 euro al mese per risolvere…poi mi hai raccontato delle guerre infinite, dei morti, dell’impossibilità di fare qualsiasi attività in tempo di guerra, delle malattie, dei bambini che giocano a pallone nei campi minati. Tutto quello che viene prima e dopo la fame.
Ci siamo raccontati anche delle cose della vita di tutti i giorni, a volte belle: la famiglia,  gli studi, i giochi. Sei bravo a scuola, come me. Ci siamo chiesti se possiamo considerarci davvero amici: non ci siamo mai visti: magari quando ci incontreremo ci troveremo antipatici, chissà! Ci siamo chiesti  pure se ci può essere amicizia in presenza di vite tanto diverse: io in europa e tu in africa, io ricco e tu povero. Poi abbiamo riso di questi dubbi e ci siamo presi in giro a vicenda.
Ma un dubbio rimane, e te ne devo parlare. Abbiamo parlato tante volte dei grandi problemi del mondo, delle grandi ingiustizie. Abbiamo detto c’è fame perché c’è  guerra; ma c’è qualcosa dietro questa storia che non mi dà pace. Chi c’è dietro queste guerre? Ci sono gli americani? Ci siamo noi?  Noi chi?  Se la responsabilità è dei politici, dei capi militari, perché mi devo sentire in colpa io? Tu mi dici che io non  ne posso nulla se non sono povero come te, non è colpa mia.
E invece sì, lo è, almeno un po’. Le armi che usano nelle vostre guerre, da dove vengono? Chi le fa? Chi le paga?  Chi le fa e le paga è sicuramente distante…No, non è così. Le armi le finanziano e le fanno qui. In europa, in italia. Con il consenso e la protezione dei nostri politici. Il pane che mangiamo viene da chi produce la vostra fame. Noi ragazzi ci ribelliamo, ma mangiamo quel pane.
Tutto legale, indiretto, filtrato e anestetizzato da tanti passaggi. La piccola banca in cui lavora mio padre vende obbligazioni emesse da una banca straniera che finanzia la tua guerra. La piccola banca presta i soldi a chi produce armi, e si procura questo denaro  facendo emettere prestiti obbligazionari da una società straniera. E la società straniera ha il proprio primo azionista in un altro paese ancora. Non sono fantasie, trovi tutto su internet.  Mio padre vende obbligazioni. Quelle obbligazioni. Lui sa cos’è questa merda; ci vuol poco a saperlo, se uno vuole…Io mangio con i soldi guadagnati in questo modo. Il cibo che mangio viene di lì. Lui ti dà 25 euro al mese, così non  muori più di fame. Noi qui abbiamo vacanze, anche in africa, abiti firmati, cellulari, belle auto…
Io mangio la tua fame.
Ma la macchina a volte si inceppa, non gira più. Sara, che hai visto nelle foto di qualche anno fa, così bella alta bionda - quella che in questo momento fa squillare il cell perché non sta più in piedi, e chiede che vada a recuperarla e riportarla a casa -  il loro cibo non lo vuole, anche se non sa da dove viene. Morirà di fame. La fame dei ricchi. Contrappasso, non so come tradurre. E io, il figlio giusto, ben adattato, primo della classe, sportivo, socievole…ho le testa che mi scoppia. Non ce la faccio più a sopportare questa commedia. Non ce la faccio. Sento il peso di tutta la fame del mondo.  
Ma queste cose non te le posso dire, non posso dirle proprio a te. Cancello tutto – seleziona tutto control alt canc – e vado a recuperare Sara, chissà in che casini si è ficcata questa volta….   

Che debolezza. Meno male che sono arrivata. Anche se a casa non ho una gran voglia di andare. Non ce la faccio proprio e fare gli scalini…posso stare qualche minuto qui appoggiata al muro, per riprendermi. La gambe mi cedono. Per poco non mi butta per terra la  tipa che fa jogging mattina e sera, dev’essere maniaca della forma fisica. Non ce la faccio a salire, proverò a chiamare Andrea, cerco il cell. Ecco, uno squillo. Qui in tasca c’è sempre l’albicocca - prende  a rigirarla nella mano destra, come giocando con una pallina di gomma -. Che tipo quel ragazzo. Simpatico però… - tira fuori dal cappotto il frutto, colorito, panciuto e vellutato, lo pulisce  contro la stoffa del cappotto, e comincia a mangiarlo a piccoli morsi. - Strano, ho fame. Aveva ragione lui, è buona. - Prende a salire le scale, mentre in lontananza si sente la sirena della polizia.

  

domenica 9 dicembre 2012

La malattia dei tempi


I tempi malati erano il passato prossimo e il futuro, futuro semplice. Da quest’ultima malattia si guarisce a volte, dalla prima no.

Stavo armeggiando da dieci minuti vicino al lucchetto della serranda. Non riuscivo ad aprirlo, era buio pesto e mi stavo innervosendo sempre più, al freddo sotto la pioggia con lo stomaco in subbuglio, quando l’ho visto arrivare: ho visto un uomo un po’ curvo che camminava lentamente sotto l’acqua. Io sono una che si fa gli affari suoi, nella speranza che anche gli altri allo stesso modo lascino in pace me; e sono una che non ha paura di niente.  Non è che mi importasse molto di quel tipo – un ubriaco o un barbone – ma non riuscivo a distogliere lo sguardo: non mi andava di incontrare qualcuno mentre ero lì a terra, cercando di aprire la serranda del negozio. Sì che ci lavoravo lì come commessa, ma non non avrei dovuto certo stare in quel posto a quell’ora, e il mio capo sarebbe stato meglio che non l’avesse saputo. 
Il tipo si avvicinava, ora lo vedevo bene. Era un vecchio vestito in modo buffo: una giacca di lino chiara tutta zuppa, e un cappello a larghe falde – si chiama panama mi pare – che si stava afflosciando sotto il peso dell’acqua.
-          Prof?
Il vecchio si era fermato proprio davanti al negozio, ma non prestava alcuna attenzione a me. Guardava contrariato la serranda abbassata.
-          Prof?
Lui posò finalmente gli occhi su di me, che mi ero alzata in piedi e ora gli stavo di fronte. Mi sorrise appena:
-          La libreria. Lei sa perché è chiusa?
Non sembrava trovare strana la mia presenza lì:
-          Veramente qui c’è un negozio di scarpe sportive.
-          Scarpe? Questa è  la libreria Boffi, e sta qui da sempre. Devo ritirare un libro che ho prenotato.
Mi spiaceva contrariarlo:
-          No, no, questo è un negozio di scarpe. Ne sono certa, ci lavoro da un anno, e da che io mi ricordi è sempre stato qui, non c’è mai stata una libreria.  Ora entriamo e le faccio vedere, sono riuscita ad alzare la serranda. Vede, ho anche le chiavi, apro io al mattino.
Volevo con queste parole rassicurarlo, fargli capire che non ero una ladra, ma non era necessario. Il vecchio mi seguì come fosse stata la cosa più naturale del mondo entrare in un negozio in piena notte.
-  Venga, facciamo presto, così si asciuga un po’.
Faceva un bel calduccio dentro. Richiusa la serranda, ho preso il professore per mano e l’ho accompagnato nel retrobottega.
-          Vede? Scarpe da ginnastica, scarponcini da tracking…
-          Il mi libro, allora, dove sarà? 
-          Poi ci pensiamo. Ora si sieda comodo su questo scatolone, si tolga la giacca e si metta questa felpa bella pesante. Abbiamo anche abbigliamento sportivo, vede? Prodotti di alta qualità. E cos’ha nei piedi? Ciabatte tutte zuppe d’acqua. Metta queste Nike. Lo so, non le piacciono, ma non è il caso di fare il difficile, rischia di ammalarsi..
Il vecchio le lasciava fare, le ubbidiva con la docilità di un bambino, ma non sembrava ascoltarla più.  Si guardava intorno con espressione sorpresa:
-          Lei lavora qui?
-          Certo. E’ un buon posto. Mi confermano il contratto, sa.  Se i vicini dicono al titolare che sono entrata qui  alle quattro di notte come una ladra, magari no… Lei però non pensi male. Sono venuta a rifugiarmi qui perché sono stata a una festa e ho bevuto un po’ troppo, e non mi va di stare a discutere con mio padre…
-          Ma sarà in  pensiero?
-          Starà dormendo. Non mi ha più chiamata. Ma prof, perché mi da del lei?
-          Beh, non ci conosciamo…
-          Sono Arianna, la figlia dei vicini. Non mi ha riconosciuta?
-          Arianna! Sì, sei tu? Ma i tuoi riccioli biondi, cosa gli hai fatto?
-          Prof, questi non sono riccioli, sono dread. Lei si ricorda di quando ero bambina… sì, avevo una ridicola testa di riccioli.
-          E cosa fai qui, in questa libreria - negozio di  scarpe?
-          Ci lavoro, prof. Da quando ho lasciato la scuola.
-          Lasciato la scuola? Questa è bella! E perché mai?
-          E’ lunga da spiegare… Un po’ non mi trovavo con gli insegnanti, poi c’era sempre da discutere a casa. In effetti avevano anche un po’ ragione i miei, non studiavo.
-          E’ un peccato, una ragazza così intelligente! Lo dice sempre anche mia moglie.
-          Davvero prof? – la signora Laura forse diceva così tempo fa, era morta da diversi anni.
-          Certo che le poche volte che sei venuta da me a ripetizioni di latino, che disastro! I tempi, le coniugazioni…
-          Si ricorda? E’ passato qualche anno. Ecco, i tempi… E’ il passato prossimo  il suo tempo malato?
-          Tempo malato?
-          Sì. Non ricorda le cose recenti, e ci resta male. Il mio tempo malato è il futuro. Non c’è cura né per lei né per me, mi sa…
-          Tempi malati. E non c’è cura. Per me no, ma per te… Il mio passato è … un po’ fumoso, ma il tuo tempo… cosa c’è che non va?
-          Il mio futuro…è fumoso pure. Questo lavoro… mi va che sono a tempo indeterminato fra pochi mesi… e sono brava, una buona venditrice, anzi la migliore… ma vendere scarpe per tutta la vita, per i prossimi 50 anni. E poi Alex, il mio ragazzo… a volte non lo capisco… è così… così  vuoto… non so che avvenire ci sarà per noi.
-          Dai retta a me, molla tutto. Riprendiamo da dove eravamo rimasti. Ecco, le lezioni di latino… Ti aspetto domani pomeriggio.
Ho sorriso, scrollando la testa.
-          E ora andiamo a casa. Cosa stiamo a fare qui? 
Ho rimesso in ordine e chiuso tutto. Siamo tornati a casa. Era l’alba. Abbiamo camminato in silenzio, inseguendo  ambedue pensieri fumosi. Prima di rientrare in casa, ho aiutato il professore a togliersi le scarpe da ginnastica e gli ho fatto mettere le sue ciabatte, onde non far insospettire la badante. Poi sono entrata nell’appartamento di fronte, nel silenzio, con i miei che fingevano di dormire.


E’ passato qualche mese da quella sera. Il mio futuro è miracolosamente guarito. Ho ripreso gli studi, ma non ho preso lezioni dal professore, per non metterlo in  imbarazzo. Sicuramente si è dimenticato della sua  proposta, e sicuramente perderebbe il filo durante le lezioni. Il professore lo rivedo spesso, ogni settimana gli riferisco degli studi ripresi. E ogni volta mi dice contento: - Brava, brava, lo sapevo… Gli do la buona notizia, sempre la stessa  ogni settimana, dato che il suo passato prossimo di guarire non vuole saperne.