mercoledì 29 febbraio 2012

La pensione


Spett.le direttore del personale,

Scusi se disturbo direttamente Lei, dovrei scrivere ai suoi collaboratori, lo so bene, ma ho una situazione grave da sottoporle.
Mi presento:
sono Paola Rossi
matricola 02025, i miei dati sono in calce a questa mail.
Veniamo al dunque:
ho ricevuto stamattina una lettera che porta la sua firma.
Dice sono in pensione dal mese prossimo.
Ma ci dev’essere un errore.
Da tempo ci penso – alla pensione intendo - e ne parlo,
ma è presto…
Da tempo penso a come impegnerò il mio tempo,
e veramente non trovo poi tante cose per riempire il mio tempo.
E poi ho sempre pensato che questa lettera vuol dire
invecchiare
e poi morire.
Ma tanto è evidente,
questa lettera è un errore.
Rileggo attentamente controllando l’ortografia e i congiuntivi,
qui cadono i colleghi buontemponi
quando fanno questi scherzi idioti.
Ma i congiuntivi sono a posto, la lettera è perfetta.
E mi guardo in giro alla ricerca di qualcuno che ridacchia
nascondendosi dietro una mano.
Niente.
Mi scusi, direttore del personale,
che roba è questa?
Mi spieghi, è necessario che qualcuno mi spieghi, e che meglio di Lei,
altrimenti qui finisce che mi metto a piangere…

Alzo gli occhi e vedo Claudio,
che ha due anni di anzianità più di me.
E lì come al solito intento a controllare le quadrature…
E non ha nessuna lettera davanti.
Direttore, sa cosa le dico?
Io di qui non me ne voglio andare…
Lo so, lo so, tutti invocano la pensione…
Io no.
Perché qui ho tanti ricordi
che diventeranno ricordi di uno che è in pensione,
che le cose di cui parla non le ha più.
Invece i miei ricordi sono parte della mia vita di adesso e di me.
Ecco che si avvicina un cliente agguerito con una carta bancomat in mano
e fa per chiedermi perché non funziona.
Mi guarda e vede gli occhi lacrimosi,
e si allontana, senza le consuete proteste,
cercando un altro impiegato.

Direttore,
lo so, la mia nostalgia ai suoi occhi è fuori luogo.
Ma io mi ricordo bene, come fosse ora,
di quando ho mandato al protesto una cambiale che scadeva… l’anno dopo,
questo è successo circa… una trentina di anni fa, per una serie di sviste su cui non mi dilungo.
Quando me ne sono accorta era troppo tardi.
E di sabato mattina avrei voluto andare alla cancelleria del tribunale,
a parlare col funzionario e a far notare che c’era un errore,
per non far protestare qualcuno ingiustamente.
Ma mio marito si era arrabbiato all’idea che di sabato
io mi preoccupassi di una cosa di lavoro.
Allora ho telefonato a Claudio,
che mi ha detto che sarebbe andato lui,
tanto aveva delle commissioni da fare in centro.
E il cliente fu salvo.
E io pure.
Se devo pensare a un bel ricordo mi viene in mente questo,
anche se ce ne sono , sicuro, molti altri.
Mi piace pensare che Claudio, di sabato mattina,
per sistemare un errore non suo,
sia andato alla cancelleria del tribunale,
alla ricerca del funzionario preposto ai protesti.
E sono certa che non aveva commissioni da fare in centro.
E non mi ha nenche chiesto
come mai non ci potevo andare  io.  

Ma ci sono anche ricordi brutti, sa,
non creda che io sia poi così vecchia da vedere
un passato tutto roseo.
Ecco qui il mio ricordo nero:
la prima qualifica,
la pagella ricevuta nel lontano 1979,
alla fine de primo anno di lavoro.
Era bruttissima,
forse la più brutta della banca.
Eppure io ero bravina, diligente, precisa,
certo che sì…chieda, chieda in giro se vuole…
Beh, imbranata e un po’ svanita…
in questo uguale a ora.
I colleghi di oggi
attribuiscono la mia distrazione e smemoratezza
alla stanchezza dei neuroni,
ma ero già così.
E in quel foglio odioso
il suo  predecessore aveva scritto
nel lontano 1979
che ero scarsa in tutto.
“Discreto”:
soglia del licenziamento.
Quella sera ero andata a casa molto amareggiata,
con la qualifica ripiegata in borsa,
E non ho avevo osato parlarne con i colleghi amici
compagni di viaggio, tutti ventenni o poco più,
- partivamo insieme alle sei di mattina per tornare alle sette di sera -.
E quando Elisa mi disse della sua di qualifica - ben due punti più su –
non immaginava della mia disgrazia,  
capì solo quando mi misi a piangere.
Ammetto di avere la lacrima facile.
Elisa e io eravamo compagne di scuola,
molto brave in tutto,
ma io un po’ di più, a dire il vero.
Ed era proprio fortunata lei, ben più di me,
perché si sarebbe sposata a giorni e avrebbe avuto una casa sua in città.
E aveva anche una bella qualifica.
Faceva il revisore.
Lei ricorda che una volta c’era il revisore? Sì, quello che controllava e  regolarizzava gli assegni.
Lavoro difficile e di grande precisione E lei era una sveglia e veloce.
Io il revisore l’ho fatto per poco tempo, e senza eccellere.
Sbagliavo le battute, per mandare via gli assegni, un disastro.
Stavo attenta, ma era più forte di me.
Quella prima qualifica è stata una vera tragedia per me.
Dice che esagero?
E’ stato un grande insuccesso per me come persona.
Ma ho imparato molto.
Di me, intendo.
Non accettavo l’ingiustizia.
Non ho voluto chiedere aiuto al sindacato, perché era una questione personale.
Ho compilato le note in calce ai giudizi con tutte le osservazioni più fredde che potevo sulla mia condotta.
Non sapevo fare le battute ma almeno sapevo scrivere.
La qualifica è stata modificata senza fare ricorsi,
e il direttore di allora si è scusato
dicendo ce gli ero sembrata poco collaborativa
perché non gli parlavo mai
e non gli sorridevo.
In effetti non avevo mai niente da dirgli,
perché avevo 19 anni e lui era vecchio...più o meno come me ora.
Chissà cosa indendeva con quell’osservazione.
Comunque avevo fatto pace con la banca,
la mia pagella era accettabile,
anche se non certo  bella come quella di Elisa,
ma non mi importava.
Sorridevo persino al direttore, ogni tanto.
Ero orgogliosa di me, del mio coraggio nell’affrontare Lei,
cioè non Lei,
chi era lì al posto Suo allora.
Ma aspetti, ora mi viene in mente una cosa:
e se fosse rimasto il “discreto”
avrei retto il colpo?
Sarebbe cambiata la mia vita?
Avrei magari cercato una via diversa, più adatta a me.
Perché in fondo la banca io non l’avevo scelta.
non potevo indirizzarmi a studi lunghi,
mancavano i soldi,
e la banca era la via più facile.
Ma con i rispami di un anno di lavoro nel ‘79
avrei potuto andare all’università,
almeno iniziare,
e studiare le cose che mi piacevano.
Avrei potuto diventare una prof, certo, una brava prof di lettere,
o una giornalista,
voglio osare…
una scrittrice, è troppo?
Scusi,
quasi quasi,
ora che ci penso,
già che siamo qui,
le chiederei un piacerino.
Ma no, non stia a sbuffare,
un piacerino piccolo piccolo…
non è che lei potrebbe…
Riprendere la mia qualifica, quella del ‘79
Massì, la trova  subito.
Nel suo armadio c’è sicuramente una pila di fogli spiegazzati e ingialliti,
cerchi in fondo…
Ecco, l’ha trovata? bene!
Ma cosa fa?
Cosa scrive?
Distinto?
Come Elisa…
Ma no, cos’ha capito! Non voglio questo...
Poi non lo meritavo mica quel giudizio…
Un voto regalato, non c’è gusto.
E’ un altro l’aiuto che chiederei…
Prenda l’allegato con le note scritte con la macchina da scrivere - i computer non c’erano ancora -.
Ecco, basta che Lei tiri una bella una riga sulle note e lasciando il giudizio originario così com’era in origine …
Così, offesa, me ne vado.
Per una nuova vita.
Come dice?
Non va, non si può?
E’ passato troppo tempo? Non si torna indietro…
Forse ha ragione Lei sa, 
allora bruciavo per la sconfitta, non volevo altre opportunità.
Dato che mi sentivo dire un no, allora volevo quel che mi veniva negato.
E vuole che le dica?
Sono ancora così.

Stavo dimenticando del perché le scrivo.
Ecco, mi confermi se la lettera è vera, se davvero l’ha scritta Lei,
Lei che non so chi è,
in quale città vive e lavora
quanti anni ha,
se ha famiglia,
se ha fatto magari il revisore,
e che qualifica…,
beh, questo non è da chiedere.
Lei è solo una firma
In calce a questo foglio.
E se è un sì,
se proprio devo andare, vado.
Perché voglio restare?
Un po’ gliel’ho già detto, invecchiare non mi va.
E poi qui ho i mei amici e poi il mio lavoro …è bello, è vario…
Me ne sto seduta alla scrivania di fronte all’entrata
Vedo tutti, conosco tutti, due parole…un bel mondo.
Scusi?
Lavoro pure, ci mancherebbe.
Ma… vuol sapere che fine ha fatto Elisa?
Lei lo deve ben sapere…
E’ direttore da qualche parte.
Che dice? Invidiosa io?
La volpe e l’uva….io? ma la smetta…

Il mio capo attuale mi considera un discreto pezzo di antiquariato
- perché ormai ho un capo più giovane di me, che somiglia pure a un attore - ,
E dice
basta che stai qui e sorridi…
Anche lui?
Ma forse non intende gli stessi sorrisi.

Sono convinta che è tutta una finzione,
ma è mezz’ora che scrivo
e non ci sono segnali evidenti di uno scherzo.
Ecco
premo
Invio
La mail è partita.

Ohhhh finalmente!
La sveglia!
Era ora!
Ma non sono nel mio letto.
Dov’è Luna.
Sono ancora in ufficio!
Questo sogno non finisce mai…
Ma la suoneria non smette…
- Sveglia Paola! Non senti la sirena?
  La prova antincendio! E’ una settimana che telo dico, dove vivi?
  Sbrigati.
- La prova antincendio? Che si fa?
- Uff, basta seguire le frecce verdi.
   Scendi dalle nuvole!
   Ma… stai bene? Cos’è quella faccia?
 - Niente – e sorrido.
   Sorrido!

Passiamo dal portellone antipanico.
Ci fa uscire Claudio.
- Il comandante lascia per ultimo la nave.- la battuta di un collega in realtà dice proprio il vero,
il comandante della nave è lui.
Siamo tutti nel viale, con l’allegria di ragazzini che hanno tagliato da scuola..
La gente ci guarda stupita,
pensando forse a una bomba o a una rapina.
Le spiritosaggini si sprecano.
- Il dir dov’è? Si butterà del primo piano?
Come sanno essere sciocchi i bancari…
Ora si può andare, tutti a casa…
- Non si timbra in uscita?
- No, non si timbra.
Prendo la bici e volo via.
Voglio tornare presto per rassicurarmi che nel cassetto
non ci sia più la lettera,
la Sua lettera…

NB: è tutto vero? Insomma, sì, tutto vero… quasi tutto. Claudio non si chiama Claudio, ma è lui, è proprio come nella storia. Non era nella scrivania di fonte mentre leggevo  la lettera, perché era in ospedale per un intervento. E nessuno di noi è andato a trovarlo. Non era lì mentre leggevo la lettera, anche perché la lettera non l’ho ricevuta.  Il resto è tutto vero. Salvo che tutti questi amici e questi sorrisi…non ci sono. E mi sento sola, come ai tempi della ridicola pagella. Ma questo bell’ambiente che descrivo non è una menzogna, è un sogno.
Non per il lavoro. Per il mondo.

    

mercoledì 8 febbraio 2012

Le piume del re


          Il re era triste. E quando un re è triste è una gran disgrazia: perché un re triste non può ben governare, non può nella melanconia avere a cuore il bene dei suoi sudditi. Non può pensare alle arti e alle lettere, alle bellezze della natura, all’avvenire dei fanciulli,  alla necessità di sollevare il suo popolo dalla povertà materiale e morale. Diventa a tutto ciò indifferente  a causa del suo umore grigio.
Questo successe al nostro re: e ancora oggi ne conserviamo il terribile ricordo.
Ma ecco come andarono le cose. Il nostro paese viveva in pace. Aveva tante risorse: terre fertili, sole, boschi, acque, nonché il proverbiale ingegno delle nostre genti.  Non era certo ricco, ma una grande ricchezza possedeva, fatta si sogni e di speranze. Il nostro re ci parlava di un grande avvenire che andava costruendo, e il nostro popolo lo seguiva docile. 
Ma un giorno successe che, per colpa di un maleficio architettato da chissà quale nemico – che lui nemici non aveva mai avuto – lo cambiò dal giorno alla notte. Si chiuse nella stanza più alta della torre più alta del suo castello, ed espresse il desiderio non vedere più alcuno; non si occupò più del suo popolo, che tanto aveva amato sino ad allora. Una nebbia grigia calò su tutto il paese. Arrivò notizia del suo malessere sino ai confini del regno, e tutti gli abitanti persero l’abituale allegria e la speranza. Nel paese non si cantava né si suonava, né si componevano più rime; non si lavorava più.  Uniche a rimanere operose furono le cento sarte del reame impegnate a confezionare fazzoletti ricamati per asciugare le ragali lacrime.
I sovrani dei paesi vicini vennero a sapere della tristezza del re e dei suoi sudditi, e non poterono rimanere a ciò indifferenti, piombando anch’essi nello sconforto.   
Allora le menti più nobili del mondo intero si mobilitarono per la salvezza del re triste. Unirono i loro sforzi per cercare qualcosa che potesse restituirgli la gioia di vivere, e decisero di portargli dei doni in occasione dell’anniversario del regno. Tutto ciò che di più bello esisteva al mondo doveva essere deposto ai piedi del re triste, al fine di risvegliarlo.
Per primo venne un grande musicista, da oltre oceano. Un enorme pianoforte fu portato a spalle  dai servitori sino in cima alla torre.  Il re accolse il maestro in abiti dimessi, senza corona sul capo, smagrito e dal viso pallido e consunto, quasi irriconoscibile.  Dinnanzi a tale visione il pianista si impietosì e commosse a tal punto da esibirsi nella sua interpretazione più intensa di “per elisa”, divenuta  memorabile. I sudditi intorno al castello ascoltarono commossi. Restarono in attesa, ma non successe nulla. Il sovrano non si risvegliò. Nessuna emozione trapelò dal suo volto. Anzi, agli occhi dei servitori parve ancora più affranto e lacrimoso
I saggi non si persero d’animo. Mandarono il giardiniere, a mostrare la rosa più bella dei giardini reali, che egli un tempo amava tanto: un fiore raro, una rosa blu.
Il poeta lesse versi toccanti; il re vide smeraldi neri, ramarri, invenzioni mirabolanti, giochi di prestigio. Si avvicendarono al suo capezzale artisti e maghi, letterati e acrobati, teatranti e scienziati. Ma non una smorfia di curiosità animò mai il viso del re. Niente fu in grado di smuoverlo dal suo torpore
Quando i saggi  sembravano aver perso ormai ogni speranza arrivò il re della Norvegia, accompagnato dalla nipote  adolescente, bionda e bellissima, che compì il miracolo. Il re triste, intenerito dalla dolcezza e dalla grazia della fanciullina, riprese a sorridere. Le parlò, si interessò alle cose della sua vita di bambina, la accarezzò con grande tenerezza, dimostrando di essere di nuovo l’uomo di valore di un tempo. Diede prova, oltre che della sua sensibilità, anche di grande generosità, e ricoprì d’oro la fanciulla che lo aveva salvato.
Tornò a farsi vedere in pubblico, bello ed elegante come il popolo lo ricordava; la corona tornò ben salda sul suo capo (anche per nascondere la incipiente regale calvizie).
Nel paese tornò la serenità; il popolo riprese a lavorare e a  sperare. Il vecchio re per la verità non dedicava più molto tempo agli affari di stato, si interessava ormai unicamente ai festeggiamenti e  alle guerre, come si conviene ad un sovrano. Al resto pensavano i suoi validi consiglieri.
E che ne fu del re di Norvegia e della nipotina? Il primo tornò a governare, mentre la nipotina rimase al castello, dove sembrava trovarsi molto a proprio agio: la residenza era grande e lussuosa. Si intratteneva con la servitù, giocava con le bambole, passeggiava per il parco,  si  arricciava gli stupendi biondi capelli e faceva bagni profumati con petali di rosa. Ogni giorno dedicava le prime ore del pomeriggio al re. Le cameriere sapevano che la fanciulla cantava e danzava per lui, ma erano incuriosite da tanta assiduità; si appostarono un giorno dietro la porta della camera del sire: videro la giovinetta, vestita al solito come una principessa - con un abito un po’ troppo corto per la verità -  che con una piuma di struzzo faceva il solletico ai piedi regali.
E il re rideva rideva rideva….

La notizia fece il giro di tutto il reame, varcando persino i confini, e “il paese della poesia” fu da quel momento nominato ”paese delle piume”. Numerose fanciulle si offrirono per sollevare il re dalla malinconia. Fecero confezionare abiti di seta, si arricciarono i capelli, colorarono le guance, e si recarono alle porte del castello, attendendo pazientemente il proprio turno.
I sudditi furono lieti di offrire le proprie figlie, non tanto per i doni che ricevevano in cambio, quanto per il bene del re e dell’intero popolo.
I sudditi i quali  avevano, ahimè, solo figli maschi si consolarono presto per il fatto che il re trovò loro una degna occupazione: li inviò soldati nelle numerose guerre intraprese al fine di portare in patria ricchi bottini, che egli non teneva per sé ma elargiva alle fanciulle.  
La vita nel regno cambiò: scienziati, poeti, musici, indovini e acrobati, dimostratisi incapaci di dare sollievo alle sofferenze del re - e quindi del popolo tutto - furono cacciati oltre confine. Andarono vagando di villaggio in villaggio, vivendo di elemosine, ricevendo di quando in quando un pasto caldo da qualche anima buona..
I laboratori degli scienziati e dei maghi  furono adibiti a botteghe in cui pettinare e arricciare i capelli delle fanciulle del re; gli alambicchi e le provette che avevano visto nascere l’elisir di lunga vita e tante cure miracolose contenevano ora nuovissime  tinture per capelli e permanenti.
Il parco reale, in cui era un tempo possibile vedere piante tropicali e rose blu, lasciò il posto ad un allevamento di struzzi e galline, che avrebbero fornito le piume necessarie al sovrano in gran quantità.
Le scuole, ormai deserte, ospitarono corsi di danza. Le inutili biblioteche vennero svuotate e messe a disposizione delle cento sarte del re, che non erano più dedite alla produzione di fazzoletti ricamati, ma di abiti all’ultima moda per le fanciulle.
I libri furono bruciati sulla piazza antistante al castello, e un enorme rogo illuminò l’intero reame, per la felicità delle fanciulle in attesa  alle porte del castello, del re e di tutti i sudditi. Che vissero appunto felici e contenti…

Dopo secoli e secoli di tanta serenità successe una notte che uno dei mendicanti rifugiatisi sulle montagne fece un brutto sogno. Dopo aver mangiato una porzione assai abbondante di pasta e fagioli e un avanzo di stufato, innaffiati di buon vino rosso, presso l’oste pietoso di una locanda sperduta, fece un sonno pesante, disturbato da strani sogni . Gli ospiti della locanda gli sentirono  pronunciare frasi insensate, versi incomprensibili, specie di formule magiche…
E per colpa di uno stufato la storia cambiò.
Il giorno seguente una fanciulla del reame, mentre aspettava che la sarta finisse il nuovo abito per la festa del re (ce n’era una ogni settimana) andò in solaio, e lì scoprì una strana macchina impolverata e arrugginita, con sopra un grosso coperchio nero, e una enorme campana che la sovrastava. Incuriosita soffiò via la polvere, e, pensando che l’apparecchio servisse per asciugare i capelli, girò la manovella. E quale non fu il suo stupore quando, unitamente a una nuvole di polvere, una musica dolce e sconosciuta riempì la stanza.
Nello stesso momento un soldato di ritorno dalla guerra sorvegliava un giovane prigioniero, destinato all’allevamento di struzzi del re: lo straniero cominciò a cantare la sua terra perduta, i suoi cari, la sua gente…e mai furono udite note più struggenti.
Nel contempo un bottegaio trovò, rovistando nella dispensa, un volume recante la scritta “sussidiario”, per una qualche disattenzione sfuggito al rogo di tanti anni prma. Decise di utilizzarlo per avvolgere le bistecche di struzzo che vendeva in quantità - degli struzzi qualcosa si doveva ben fare, una volta spennati -. E così un mare di versi, di formule, di imprese eroiche, di belle immagini  si riversarono sul regno.
E una splendida barbarie cominciò…

La madonnina


Che fai lì in fondo, nascosto dietro la pila? Vieni avanti, sei venuto per  me, o no? Vedo, mi stai cercando con gli occhi. Alza lo sguardo, sono in alto, mi hanno spostata qui, sopra l’altare. Mi hai trovato finalmente.
Sono Maria. Maria, non la madonna. Sono una ragazza di campagna che, per compiacere un parente pittore dilettante ha accettato di posare con un bambino, per un quadro destinato al una cappelletta di campagna. Una ragazzetta qualsiasi, che non era madre, e neanche vergine, che qualcuno ha trascinato via da un campo in cui raccoglieva fiori selvatici per diventare controvoglia la madonna. Il viso ripulito alla buona, un velo azzurro a coprire i riccioli arruffati, le labbra umettate di saliva per dare un po’ di colore. Il quadro piacque molto,  gli fu persin attribuito qualche miracolo. Allora fu spostato in una chiesetta, che poi si ingrandì e diventò, anche per le virtù del dipinto, il Santuario che ora vedi. E io sono diventata la madonna. Cioè mi  sono convinta di esserlo perché tutti ne sono convinti, chiedono grazie, pregano e implorano dinnanzi a me.  Questo che ho in braccio non è mio figlio, è un bambino che mi portavo appresso mentre i suoi genitori erano nei campi. Sì, un po’ grande per la parte di Gesù, e un po’ troppo discolo. Il pittore ha ben raffigurato l’espressione vivace, gli occhi vispi e allegri. Ha lasciato perdere unghie nere e graffi sulle braccia.  Poco adatto alla parte. Sembra sempre in procinto di saltar giù dal quadro per andare a correre e saltare nei fossi. Ero una ragazza come tutte, di indole tranquilla, semplice e poco vanitosa, lavoratrice, dedita alla famiglia. Il mio viso non è molto espressivo nel ritratto perché mi annoiavo a stare in posa, e pensavo ai tanti lavori che mi aspettavano…
Una volta non ero così come mi vedi, in origine non c’erano ricami dorati sul velo, e neppure la corona. Non erano cose adatte a Maria e neanche alla madonna che ora sono. Sono stati aggiunti successivamente, quando la chiesetta è diventata un grande e sontuoso santuario. Comunque hai ragione a confidare in me. Il mio viso à dolce, di chi accoglie e non giudica. In effetti a forza di star qui ho imparato il mestiere, sono diventata la madonna: a forza di ascoltare confidenze, suppliche, preghiere e ringraziamenti ho imparato tutto dei dolori del mondo, e non sono più la ragazzetta spensierata di cui ti dicevo.

Stare qui in questo quadro nella pieve all’inizio era un supplizio. Poco più che bambina, cosa potevo capire del peccato.  Oltre a qualche bugia innocente alla mamma, che cosa potevo aver fatto? Difficile, imbarazzante recitare questa parte. Ma mi impegnavo sapete, perchè la gente mi guardava, e credeva fossi proprio Lei e confidava in me. Dovevo capire, e anche fare, risolvere. Ragazzetta di tredici anni, - adulta non sarei mai diventata, morii di febbre in un inverno freddissimo – imparai il mestiere di madonna.
Non è affatto un mestiere facile. Non ci sono solo suppliche e richieste di aiuto. Ci sono anche i peccati. Gli uomini  vengono qui a chiedere perdono con quattro avemaria pater gloria si ripuliscono la coscienza. - Ho ucciso, rubato, ingannato, ma chiedo scusa…quanto costa la tua complicità, madonnina. - E io devo perdonare, mi tocca, altre madonne prima di me hanno dato l’abitudine.
In questa coorte di delinquenti senza dio i miei occhi si posano su quelli che sembrano fuori posto, a disagio, tra un assassino di qua e un ladro di là. Io sono curiosa, voglio sapere di questi peccatori imbarazzati.   
Sono gli uomini degli atti mancati.
Sono tanti e vari gli atti mancati.
Se Lui li punisce?
Veramente non lo so. Io  non so molto delle sacre scritture. Non so leggere.
Però stando qui mi sono fatta una idea mia del peccato.
E punisco gli atti mancati.
Punisco le parole non dette, le carezze non date. I saluti trattenuti o pronunciati a bassa voce, nella paura che l’altro non risponda. Gli sguardi abbassati. I sorrisi morti sul nascere. I gesti mancati verso persone indifferenti, che quelle amiche non ne hanno neppure bisogno. Le parole: scusa, torno, ti accompagno, ci sono, ci sarò, vediamoci, non importa, grazie, ti aiuto, aiutami…parole importanti e altre semplici o banali, ma non meno importanti. E il tono di voce…che sia dolce, e tenero, e fraterno, e materno, e paterno, e protettivo, e amichevole, e partecipe, e comprensivo. Il tono che sia quello giusto per la parola che dite, e per quel che sente il cuore…perché la parola da sola non vale. E poi, punisco chi non fa il male e non fa l bene, chi non fa niente. Chi è indifferente. Chi potrebbe fare il male e non lo fa per i motivi più vari, e si sente a posto. Chi potrebbe fare il bene e non lo fa. Atti mancati.

Da me non vengono solo peccatori, no.
Ci sono i piccoli e grandi dolori. Le persone chiedono aiuto. Mi dicono non ce la faccio più, fai qualcosa tu. Che fare. Aiuto non è la dimenticanza,  che non si vuol dimenticare le persone amate, è dare un senso, è accettare.
Persone sole.
È un lavoro difficile per una ragazzina sai.
Poi ci sono i desideri. Tanti vogliono una magia o una raccomandazione, ma se non sono propriamente una madonna non sono neanche una maga. Ma proprio per non deluderli, visto che credono in me, cerco di farli riflettere su come arrivare. Qual è la via. E se è il caso di cercarla.

Dimmi, tu che ti inginocchi ai miei piedi, con chi stai?
Che fai qui, non sei un peccatore, si vede subito.
Non hai ucciso, rubato tradito,
sembri una persona onesta e amorevole, il tuo sguardo è diretto.
Hai un grande dolore? Vuoi l’aiuto della dimenticanza?
Sei solo?
Hai un desiderio, un sogno?
Non hai peccati, non chiedi grazie, che vuoi?
Non vuoi niente. Volevi conoscermi. Sei confuso.
Io ascolto, ascolto tutti, è il mio lavoro.
Nessuno ascolta me, tu sei il primo.
Ma forse ho capito perchè sei qui.
Soffri di peccati non tuoi.
Lascia perdere, pensa che così va il mondo, vattene a casa.
Vai via, lasciami riposare, il mio orario è finito.
Affrettati, il sacrestano sta chiudendo il portone.

Il mare


Com’è bello vivere al mare!
Io ho la fortuna di vivere in una città di mare. Ogni mattina appena apro gli occhi non vedo l’ora di buttarmi giù dal letto e precipitarmi là, in riva al mare, e vedere com’è… com’è il mare...
Mi lavo la faccia in un attimo, lasciando l’asciugamano spiegazzato sul cesto della biancheria, afferro lo zaino e scappo via. Mi scapicollo giù per le scale, e mentre scendo sento la mamma che urla: la colazione!
Giù in strada corro per venti metri, fino al punto in cui il vicolo si congiunge al lungomare. E mentre avanzo veloce cerco già di vedere com’è...
Oggi è nuvolo, il cielo è di piombo, e come mi aspettavo le acque sono scure e opache, mosse e increspate; tra poco si alzeranno onde alte e violente. Guardo fin dove finisce l’erba, dove si spinge il mare. Qui non c’è sabbia, e ci sono pochi scogli, si passa dal prato all’acqua salata. Arrivano gli spruzzi. Il mare è bello anche così. E’ bello sempre.
Mi siedo sull’erba umida. E’ presto, posso stare a guardare le barche che passano. Ecco al largo la nave che ha salvato la piccola Sara, c’è tutti i giorni, con ogni tempo. Ecco un motoscafo imprudente che fa ritorno in tutta fretta al porticciolo. Non c’è oggi la canoa con il ragazzo e il papà, che sfreccia veloce quando il mare è piatto.
In questa stagione le acque sono quasi sempre calme. Tutti i giorni mi siedo qualche minuto qui ad osservare l’orizzonte, pensando: chissà dove finisce il mare… E’ il momento più bello della giornata. Poi mi avvio a scuola, costeggiando le aiuole verdi, guardando in giro.
Sembra non succeda mai niente qui, ma non è vero. La storia di Sara è nota, è una bella storia, ma ce ne sono altre. Un giorno la cagnolina nera, Luna, si è addentrata nelle acque profonde vedendo qualcosa di colorato galleggiare, e poi ha avuto paura, non sapeva tornare: aveva paura delle barche. E io, che del mare non ho paura, sono corso a salvarla.
Tutte le mattine mi fermo a sentire le novità dal marinaio che ripara le reti. Mi fermo poi dal panettiere a prendere la focaccia, specialità di questi posti di mare.
Passo davanti alla chiesa: forse questa è l’unica chiesa che si affaccia direttamente sul mare, enorme imponente chiesa gotica. E il fatto che il mare sia calmo o tumultuoso, azzurro o grigio, deserto o affollato di barche, dà un senso diverso alle preghiere e ai canti. Ospita un dio ora dolce e comprensivo ora arrabbiato con gli uomini, ora allegro per il buon operato dei suoi figli ora triste e sconsolato per i loro peccati. E non sapete che paura fa questa enorme chiesa quando le onde nere, alte e rumorose, sembrano alzarsi fino alle guglie, per frangersi poi ai suoi piedi, fino a sommergere la scalinata! Sono braccia e pugni sollevati al cielo da un dio cattivo. Un dio forte e muscoloso: volto teso e severo, braccia possenti, grandi mani. La delusione per una debolezza umana diventa rabbia, ira. Mi sembra strano che Dio si arrabbi così: ma forse non è Dio, è Nettuno.
Ai miei genitori non piace il mare, non so perché, e non vogliono che ne parli. Mia madre dice che le mie sono fantasie, che qui non c’è il mare, che al mattino costeggio nient’altro che una strada trafficata. Che il vecchietto non ripara le reti, è un calzolaio. Che non esiste nessuna canoa, quel che posso aver visto è un tandem, una bici a due posti con il papà e il bambino, che passa di lì ogni mattina. Che Sara esiste sì, ma non è stata salvata da un marinaio, ma da un operaio dell’amiu, che l’ha poi adottata. E il ragazzo trovato esamine in riva al mare non era uno straniero in fuga dal suo paese su un barcone, ma un tossico qualunque. E non c’è Nettuno sulla facciata della chiesa: nessun dio è rappresentato, ha guardato bene. Ed è pericoloso stare in giro quando è buio, c’è brutta gente in giro. E non devo raccontare del mare a tutti perché potrebbero ridere di me. E non posso inventarmi il mondo: il mondo è questo: un nastro grigio, macchine e persone che corrono indifferenti e frettolose. E non devo diventare come lo scrittore sotto casa, uno che si inventa la vita… La mamma sembra non riuscire più a fermarsi quando fa questi discorsi. E quasi quasi si mette a piangere. Così non le parlo più del mare. Ma nei miei giochi in strada continuo a cercare messaggi di naufraghi nelle bottiglie e conchiglie contenenti perle preziose.
Il tempo per fortuna si è aggiustato, e si è fatta una bella giornata. I pescatori scaricano le casse, è stata una pesca abbondante; sono allegri, ridono e scherzano. Nettuno è tranquillo al suo posto sulla facciata della chiesa. I ragazzi si baciano.
Il mio sogno è sempre stato trovare una sirena in riva al mare. Ieri sera è successo. Non lo dirò a casa, non lo dirò a nessuno.
Aveva un bel viso, dolce e regolare, capelli lunghissimi, occhi chiusi. L’ho trovata coricata sull’erba, vicino all’acqua. Indossava un vestito scollato, sembrava un abito da sera, tutto di scaglie verdi e argentate, lungo fino ai piedi. Fino a dove avrebbero dovuto esserci i piedi e non c’erano. Pensavo alla fiaba, a chi avrebbe salvato la sirena, ma non c’era nessuno in giro. Ho alzato gli occhi a Nettuno per vedere se aveva suggerimenti sul da farsi, ma sembrava inespressivo, anzi forse un po’ contrariato. Avrei voluto baciarla per risvegliarla, ma sono solo un bambino, non avrebbe funzionato. Poi il bacio rianima biancaneve e la bella addormentata, ma non la sirenetta, non mi pare. Mentre ci pensavo si è risvegliata. Ha sbattuto le ciglia come nelle fiabe, ha aperto gli occhi, si è alzata. Mi ha visto e, cosa incredibile, mi ha sorriso. Si è sistemata l’abito alla bell’e meglio e si è allontanata con passo ondeggiante, in equilibrio precario sulle pinne argentate come fosse stata un po’… insomma, un po’ sbronza. Piccola bella dolce elegante sirena ubriaca... Non ha parlato, una sirena non sa parlare. Ma mi ha mandato un bacio, appoggiando una mano sulle labbra. Chissà dov’era diretta. L’ho seguita con gli occhi mentre si immergeva lentamente nell’acqua grigia, scomparendo nel profondo.
Tornerà. Tutti i giorni passo di qui e controllo se ci sono messaggi nelle bottiglie che il mare porta. Hanno odore di birra salata. Le etichette parlano di lei, ma non danno indicazioni precise sul suo ritorno: passione autentica, sogno infinito. Cerveza, ceres, cosa vorrà dire.
Guardo le barche che passano, cerco i pescatori per sentire le ultime novità, saluto le persone che portano a spasso il cane sul lungomare.
Lei tornerà un giorno, e allora io sarò grande. Quel giorno non ci sarà tempesta, l’acqua sarà calma, limpida e azzurra, e Nettuno se ne starà buono e zitto.
Non sono triste. La aspetto. Solo vorrei poter parlare di lei e di tutte le cose meravigliose che avvengono qui. Vorrei parlarne con tutti quelli che conosco e con quelli che non conosco. Perché sappiano com’è bello vivere ad Alessandria, città di mare.