domenica 16 dicembre 2012

Fame




- Qualcuno che ha più fame di me… - questo ho pensato vedendola, mentre mi stavo avviando deciso verso il banco dei formaggi. Mi sono fermato di colpo. Magrissima, pallida, bel viso, capelli biondi lunghi raccolti, spaziava con lo sguardo sulle meraviglie dello scaffale della frutta. Pesche, albicocche, uva, ananas, meloni. Frutti di tutte le stagioni, di tutti i paesi, di tutti i colori. Guardava e non guardava. Era assente, distante, come se i suoi pensieri fossero rivolti a un altro mondo.  Mi metteva una gran tristezza, così ossuta e spersa. Si capiva che era da un bel po’ che non mangiava, ma  questo mi faceva strano. Ci sono tanti modi per far su qualcosa. Forse non ci sapeva fare , o aveva paura, o si vergognava, o più  facilmente non mangiando da tanto tempo il cervello non girava più come doveva, capita. L’ho aspettata all’uscita, anticipandola. Lei ha preso  uno smalto per unghie viola, l’ha pagato…. Mentre arrivava lenta mi sono affiancato a lei per strada, e si è spaventata.  
-          Vuoi? – ho tirato fuori dalle tasche le albicocche - Sono dolcissime sai? Per me sono troppe. Ne ho prese tante. Prese, rubate.
Lei ha sorriso, scrollando la testa
-          Dai, guarda che belle, sono mature…
Ne ha presa una.
-          Grazie.
-          Mangia.
-          Ora no, la tengo per dopo… Grazie, sei gentile. Ma… non eri alla cassa, davvero le hai rubate?
-          Certo.
-          E non hai paura?
-          Non mi hanno mai preso, sono bravo. Arrivando all’ora di chiusura le commesse non dicono niente al direttore, non hanno voglia di uscire tardi per me. Poi non esagero mai…Ma tu avevi i soldi per pagare  questo coso, perché non hai  preso qualcosa da mangiare? 
-          Non mi serve niente. Ora vado…
-          Sei bella sai.
Aveva la pelle così bianca, come di ceramica. E gli occhi azzurri come il cielo. La fame gli occhi non li rovina. Ci siamo salutati e lei, allontanandosi, ha infilato l’albicocca nella tasca del cappotto. Sono rimasto un minuto a guardarla mentre se ne andava, e poi sono tornato ai miei pensieri. Nella fretta di raggiungerla mi ero dimenticato del formaggio. Andrò all’altro supermercato, qui vicino. Devo sbrigarmi, rischio di trovare chiuso.
Malata, sarà ammalata, poverina.  Io in fondo ho solo fame.

Come vorrei sentire qualche volta appetito! Da quando faccio la commessa in questo supermercato, al banco panetteria e pasticceria, odio il cibo. Odio questi dolci. Odio le focacce, i biscotti, i pasticcini, le brioches; ancor più odio le torte con la crema e la panna, e anche le crostate alla frutta,  e fin anche il pane. Mangio poco, senza appetito. E inspiegabilmente ingrasso. Ecco la signora Maria. Lei sì può avere fame. Compra pochissimo. E si fa dare ogni giorno un sacco di pane secco. Le regaliamo anche il latte prossimo alla scadenza che ci avanza la sera. A volte le diamo anche cose che si potrebbero ancora vendere, perché ci fa pena. Chissà cosa ne fa di tutto questo pane.
Ed ecco il solito ladruncolo. Viene tutti i giorni, la titolare non ne può più. Ecco che prende il telefono. Questa volta non la farà franca.

Venite gattini, quanta fame! Se non ci fossi io! Ecco il latte per i piccolini.  Ecco la carne cruda per te Mia, vecchiettina, quella che ti piace, lo so non mangi altro.  Venite qui in quest’angolino, non posso farmi vedere dai vicini, non vi vogliono. In verità lo sanno che sono io che vi do da mangiare, ma non osano dirmi niente, perché sono vecchia. Pensano vecchia pazza, presto morirà, così ci liberiamo dei gatti. Vediamo un po’, ci siete tutti? Manca Tigre…avrà trovato una gattina, il solito viveur… Ecco Nerina, possiamo iniziare. Io so quel che pensano. Pensano vecchia pazza, con la pensione minima dà da mangiare a 10 gatti. Magari non mangia lei…Un po’ è vero, io mi faccio la zuppa col latte la sera e a mezzogiorno la minestrina e una mela. Ma questo mi basta e avanza. A loro cosa importa? Io non ho fame, sto bene così. E per il momento non gliela do la soddisfazione di vedermi morire… Che ne sarebbe di voi, micini cari…

Mi sono svegliata nel cuore della notte con una gran fame. Da tre mesi sono a dieta, e ho retto bene sinora. Veramente sarebbe corretto dire  che da vent’anni sono a dieta. Cioè mi metto a dieta, dimagrisco, ad un certo punto sono presa da una fame smodata e riprendo a mangiare voracemente e di tutto. E ingrasso. Poi mi sento in colpa e mi faccio così schifo che mi rimetto a dieta. Non sempre i tentativi di dieta riescono, a volte sospendo fin da subito. A volte resto magra per alcuni mesi o addirittura anche per un anno, e in quei brevi periodi mi piaccio molto, sono proprio felice. E ora non vorrei cedere…mi rigiro nel letto cercando di pensare al altro.
Dato che il mio peso cambia continuamente ho un armadio pieno zeppo di vestiti di tre taglie diverse. Quanti soldi si spendono in vestiti, cambiando continuamente peso! Non so se faccio bene a conservarli tutti. Si sa, le mode cambiano...Tornando al peso di dieci anni fa tiro fuori gli abiti small di allora, ma  non mi piacciono più, e mi preparo a nuovi acquisti.
L’ultima dieta è stata particolarmente efficace. Ho messo insieme le conoscenze acquisite in venti anni di esperienza (di diete ormai so tutto). Ho perso otto chili, e sono tornata al mio peso ideale. Non è stato un sacrificio. Ho sempre dosato tutti i cibi, effettuato compensi quando mi è capitato di mangiare un quantitativo maggiore del previsto di pasta o pane…stare a dieta vuol dire pensare sempre solo a mangiare. Impegna tempo, soldi e energia. Serve anche attività fisica. Altro tempo, altri soldi. Dimagrire – dimagrire bene - non è semplicemente rispettare una regola, non è stile di vita, non è scienza…è un’arte.
Questa notte però è successo qualcosa che non mi era mai successo prima.
Mi sono svegliata con questa grande fame. Ho perlustrato i mobiletti della cucina e il frigo, ma non ho trovato nulla di interessante.  Il frigo di chi sta a dieta è una desolazione. Qualsiasi tentazione è tenuta sapientemente alla larga: niente merendine, niente biscotti, niente noccioline e patatine, niente nutella, per carità… Durante la perlustrazione mi è caduto l’occhio su di una pentola sul fornello. L’ho depositata sul tavolo e mi sono messa a mangiare il contenuto direttamente dal tegame, senza neppure versarlo in un piatto. Squisito. Ci saranno state almeno tre porzioni e le ho mangiate tutte. Riso, verdurine tenere affettate (carote, zucchine e erbette),  pezzettini di carne tenera di manzo. Ingredienti di prima qualità. Ho aggiunto giusto un po’ di sale e  appena un goccio d’olio extra vergine. Il riso in verità era un po’ scotto – il veterinario raccomanda una cottura lunga – ma comunque saporito. Luna osservava attenta e un po’ contrariata, e ad un certo punto si  è messa a uggiolare. Si è calmata subito rendendosi conto che doveva trattarsi di un evento eccezionale, che giustificava la sparizione della sua pappa. Non toglieva gli occhi dalla pentola ormai vuota. Ma non era successo niente di grave: era solo fame.  

Finalmente è arrivato internet al tuo villaggio! Non mi sembra vero che le mie e le tue parole volino sopra le montagne e i boschi, il mediterraneo, le città di mare e di vacanza sulle coste dell’africa, il deserto, luoghi che immagino e non conosco…e mentre io scrivo tu sei già lì che leggi. Siamo vicini.
Da tanti anni ci scriviamo per lettera, e tante cose abbiamo sempre da dirci. Sono passati cinque anni dalla prima cartolina. Tutto è nato da un’adozione a distanza voluta dai miei, quando ero un ragazzino, e pian piano siamo diventati amici. Allora pensavo alla tua fame, mi sembrava bastassero 25 euro al mese per risolvere…poi mi hai raccontato delle guerre infinite, dei morti, dell’impossibilità di fare qualsiasi attività in tempo di guerra, delle malattie, dei bambini che giocano a pallone nei campi minati. Tutto quello che viene prima e dopo la fame.
Ci siamo raccontati anche delle cose della vita di tutti i giorni, a volte belle: la famiglia,  gli studi, i giochi. Sei bravo a scuola, come me. Ci siamo chiesti se possiamo considerarci davvero amici: non ci siamo mai visti: magari quando ci incontreremo ci troveremo antipatici, chissà! Ci siamo chiesti  pure se ci può essere amicizia in presenza di vite tanto diverse: io in europa e tu in africa, io ricco e tu povero. Poi abbiamo riso di questi dubbi e ci siamo presi in giro a vicenda.
Ma un dubbio rimane, e te ne devo parlare. Abbiamo parlato tante volte dei grandi problemi del mondo, delle grandi ingiustizie. Abbiamo detto c’è fame perché c’è  guerra; ma c’è qualcosa dietro questa storia che non mi dà pace. Chi c’è dietro queste guerre? Ci sono gli americani? Ci siamo noi?  Noi chi?  Se la responsabilità è dei politici, dei capi militari, perché mi devo sentire in colpa io? Tu mi dici che io non  ne posso nulla se non sono povero come te, non è colpa mia.
E invece sì, lo è, almeno un po’. Le armi che usano nelle vostre guerre, da dove vengono? Chi le fa? Chi le paga?  Chi le fa e le paga è sicuramente distante…No, non è così. Le armi le finanziano e le fanno qui. In europa, in italia. Con il consenso e la protezione dei nostri politici. Il pane che mangiamo viene da chi produce la vostra fame. Noi ragazzi ci ribelliamo, ma mangiamo quel pane.
Tutto legale, indiretto, filtrato e anestetizzato da tanti passaggi. La piccola banca in cui lavora mio padre vende obbligazioni emesse da una banca straniera che finanzia la tua guerra. La piccola banca presta i soldi a chi produce armi, e si procura questo denaro  facendo emettere prestiti obbligazionari da una società straniera. E la società straniera ha il proprio primo azionista in un altro paese ancora. Non sono fantasie, trovi tutto su internet.  Mio padre vende obbligazioni. Quelle obbligazioni. Lui sa cos’è questa merda; ci vuol poco a saperlo, se uno vuole…Io mangio con i soldi guadagnati in questo modo. Il cibo che mangio viene di lì. Lui ti dà 25 euro al mese, così non  muori più di fame. Noi qui abbiamo vacanze, anche in africa, abiti firmati, cellulari, belle auto…
Io mangio la tua fame.
Ma la macchina a volte si inceppa, non gira più. Sara, che hai visto nelle foto di qualche anno fa, così bella alta bionda - quella che in questo momento fa squillare il cell perché non sta più in piedi, e chiede che vada a recuperarla e riportarla a casa -  il loro cibo non lo vuole, anche se non sa da dove viene. Morirà di fame. La fame dei ricchi. Contrappasso, non so come tradurre. E io, il figlio giusto, ben adattato, primo della classe, sportivo, socievole…ho le testa che mi scoppia. Non ce la faccio più a sopportare questa commedia. Non ce la faccio. Sento il peso di tutta la fame del mondo.  
Ma queste cose non te le posso dire, non posso dirle proprio a te. Cancello tutto – seleziona tutto control alt canc – e vado a recuperare Sara, chissà in che casini si è ficcata questa volta….   

Che debolezza. Meno male che sono arrivata. Anche se a casa non ho una gran voglia di andare. Non ce la faccio proprio e fare gli scalini…posso stare qualche minuto qui appoggiata al muro, per riprendermi. La gambe mi cedono. Per poco non mi butta per terra la  tipa che fa jogging mattina e sera, dev’essere maniaca della forma fisica. Non ce la faccio a salire, proverò a chiamare Andrea, cerco il cell. Ecco, uno squillo. Qui in tasca c’è sempre l’albicocca - prende  a rigirarla nella mano destra, come giocando con una pallina di gomma -. Che tipo quel ragazzo. Simpatico però… - tira fuori dal cappotto il frutto, colorito, panciuto e vellutato, lo pulisce  contro la stoffa del cappotto, e comincia a mangiarlo a piccoli morsi. - Strano, ho fame. Aveva ragione lui, è buona. - Prende a salire le scale, mentre in lontananza si sente la sirena della polizia.

  

domenica 9 dicembre 2012

La malattia dei tempi


I tempi malati erano il passato prossimo e il futuro, futuro semplice. Da quest’ultima malattia si guarisce a volte, dalla prima no.

Stavo armeggiando da dieci minuti vicino al lucchetto della serranda. Non riuscivo ad aprirlo, era buio pesto e mi stavo innervosendo sempre più, al freddo sotto la pioggia con lo stomaco in subbuglio, quando l’ho visto arrivare: ho visto un uomo un po’ curvo che camminava lentamente sotto l’acqua. Io sono una che si fa gli affari suoi, nella speranza che anche gli altri allo stesso modo lascino in pace me; e sono una che non ha paura di niente.  Non è che mi importasse molto di quel tipo – un ubriaco o un barbone – ma non riuscivo a distogliere lo sguardo: non mi andava di incontrare qualcuno mentre ero lì a terra, cercando di aprire la serranda del negozio. Sì che ci lavoravo lì come commessa, ma non non avrei dovuto certo stare in quel posto a quell’ora, e il mio capo sarebbe stato meglio che non l’avesse saputo. 
Il tipo si avvicinava, ora lo vedevo bene. Era un vecchio vestito in modo buffo: una giacca di lino chiara tutta zuppa, e un cappello a larghe falde – si chiama panama mi pare – che si stava afflosciando sotto il peso dell’acqua.
-          Prof?
Il vecchio si era fermato proprio davanti al negozio, ma non prestava alcuna attenzione a me. Guardava contrariato la serranda abbassata.
-          Prof?
Lui posò finalmente gli occhi su di me, che mi ero alzata in piedi e ora gli stavo di fronte. Mi sorrise appena:
-          La libreria. Lei sa perché è chiusa?
Non sembrava trovare strana la mia presenza lì:
-          Veramente qui c’è un negozio di scarpe sportive.
-          Scarpe? Questa è  la libreria Boffi, e sta qui da sempre. Devo ritirare un libro che ho prenotato.
Mi spiaceva contrariarlo:
-          No, no, questo è un negozio di scarpe. Ne sono certa, ci lavoro da un anno, e da che io mi ricordi è sempre stato qui, non c’è mai stata una libreria.  Ora entriamo e le faccio vedere, sono riuscita ad alzare la serranda. Vede, ho anche le chiavi, apro io al mattino.
Volevo con queste parole rassicurarlo, fargli capire che non ero una ladra, ma non era necessario. Il vecchio mi seguì come fosse stata la cosa più naturale del mondo entrare in un negozio in piena notte.
-  Venga, facciamo presto, così si asciuga un po’.
Faceva un bel calduccio dentro. Richiusa la serranda, ho preso il professore per mano e l’ho accompagnato nel retrobottega.
-          Vede? Scarpe da ginnastica, scarponcini da tracking…
-          Il mi libro, allora, dove sarà? 
-          Poi ci pensiamo. Ora si sieda comodo su questo scatolone, si tolga la giacca e si metta questa felpa bella pesante. Abbiamo anche abbigliamento sportivo, vede? Prodotti di alta qualità. E cos’ha nei piedi? Ciabatte tutte zuppe d’acqua. Metta queste Nike. Lo so, non le piacciono, ma non è il caso di fare il difficile, rischia di ammalarsi..
Il vecchio le lasciava fare, le ubbidiva con la docilità di un bambino, ma non sembrava ascoltarla più.  Si guardava intorno con espressione sorpresa:
-          Lei lavora qui?
-          Certo. E’ un buon posto. Mi confermano il contratto, sa.  Se i vicini dicono al titolare che sono entrata qui  alle quattro di notte come una ladra, magari no… Lei però non pensi male. Sono venuta a rifugiarmi qui perché sono stata a una festa e ho bevuto un po’ troppo, e non mi va di stare a discutere con mio padre…
-          Ma sarà in  pensiero?
-          Starà dormendo. Non mi ha più chiamata. Ma prof, perché mi da del lei?
-          Beh, non ci conosciamo…
-          Sono Arianna, la figlia dei vicini. Non mi ha riconosciuta?
-          Arianna! Sì, sei tu? Ma i tuoi riccioli biondi, cosa gli hai fatto?
-          Prof, questi non sono riccioli, sono dread. Lei si ricorda di quando ero bambina… sì, avevo una ridicola testa di riccioli.
-          E cosa fai qui, in questa libreria - negozio di  scarpe?
-          Ci lavoro, prof. Da quando ho lasciato la scuola.
-          Lasciato la scuola? Questa è bella! E perché mai?
-          E’ lunga da spiegare… Un po’ non mi trovavo con gli insegnanti, poi c’era sempre da discutere a casa. In effetti avevano anche un po’ ragione i miei, non studiavo.
-          E’ un peccato, una ragazza così intelligente! Lo dice sempre anche mia moglie.
-          Davvero prof? – la signora Laura forse diceva così tempo fa, era morta da diversi anni.
-          Certo che le poche volte che sei venuta da me a ripetizioni di latino, che disastro! I tempi, le coniugazioni…
-          Si ricorda? E’ passato qualche anno. Ecco, i tempi… E’ il passato prossimo  il suo tempo malato?
-          Tempo malato?
-          Sì. Non ricorda le cose recenti, e ci resta male. Il mio tempo malato è il futuro. Non c’è cura né per lei né per me, mi sa…
-          Tempi malati. E non c’è cura. Per me no, ma per te… Il mio passato è … un po’ fumoso, ma il tuo tempo… cosa c’è che non va?
-          Il mio futuro…è fumoso pure. Questo lavoro… mi va che sono a tempo indeterminato fra pochi mesi… e sono brava, una buona venditrice, anzi la migliore… ma vendere scarpe per tutta la vita, per i prossimi 50 anni. E poi Alex, il mio ragazzo… a volte non lo capisco… è così… così  vuoto… non so che avvenire ci sarà per noi.
-          Dai retta a me, molla tutto. Riprendiamo da dove eravamo rimasti. Ecco, le lezioni di latino… Ti aspetto domani pomeriggio.
Ho sorriso, scrollando la testa.
-          E ora andiamo a casa. Cosa stiamo a fare qui? 
Ho rimesso in ordine e chiuso tutto. Siamo tornati a casa. Era l’alba. Abbiamo camminato in silenzio, inseguendo  ambedue pensieri fumosi. Prima di rientrare in casa, ho aiutato il professore a togliersi le scarpe da ginnastica e gli ho fatto mettere le sue ciabatte, onde non far insospettire la badante. Poi sono entrata nell’appartamento di fronte, nel silenzio, con i miei che fingevano di dormire.


E’ passato qualche mese da quella sera. Il mio futuro è miracolosamente guarito. Ho ripreso gli studi, ma non ho preso lezioni dal professore, per non metterlo in  imbarazzo. Sicuramente si è dimenticato della sua  proposta, e sicuramente perderebbe il filo durante le lezioni. Il professore lo rivedo spesso, ogni settimana gli riferisco degli studi ripresi. E ogni volta mi dice contento: - Brava, brava, lo sapevo… Gli do la buona notizia, sempre la stessa  ogni settimana, dato che il suo passato prossimo di guarire non vuole saperne. 

domenica 12 agosto 2012

Diario di uno stalker




Lunedì 
Sono le sette e dieci. Eccomi qui, davanti al tuo cancello. Come ogni mattina a quest’ora.  Immobile, con i muscoli ben tirati. La mia padrona è una ordinata e regolare. Ha la sveglia alle sette.  Si butta giù subito dal letto e si esce per il nostro giro mattutino. Alle otto si torna dalla passeggiata, si fa colazione, e lei va al lavoro. Torna alle 13.45. Ogni giorno.
Ogni  mattina sono qui e aspetto. Aspetto la mia preda. La mia padrona sa bene perché mi arresto qui e mi siedo, e mi aspetta rassegnata, sa che niente riuscirebbe a smuovermi.
Sento sbattere il portone. Lui è giù che mi aspetta.  Non lo sento, non abbaia e non ansima. Ma so che è lì.
 Questa mattina non ci sei, sicuramente sei ancora ai piedi del tua padrone che ti stiracchi. Non preoccuparti.  Domani mi trovi ancora qui. So aspettare. Ti aspetto da anni. Da sempre.

Martedì
Ti vedo. Lo sai, sei la mia preda. Solo tu. Se scappi ti cerco.  Se mi graffi, se mi guardi con aria di sfida, non desisto.  Ora c’è una cancellata fra me e te.  Te ne stai nel tuo bel giardino fiorito - un batuffolino bianco tra il verde e il rosa  di tulipani e petunie  -, ti senti al sicuro. Ma troverò un varco. Aspettami.
Quanto sei sciocco. Non penserai mica di riuscire a passare attraverso il mio cancello? E poi non si è mai soli.  La tua padrona  dice buono, su, che dolce Stella, e la  voce della bambina dalla finestra dice zitto, maschiaccio, e ancora:  tu Stellina, non provocarlo. Chissà perché siamo sempre noi gatti a provocare…
 Ma ci ritroveremo soli un giorno, faccia a faccia. Io ho la pazienza dalla mia.

Mercoledì
Ho scoperto come si fa! Il mio pelo arruffato e il mio soffiare lo fanno arretrare!  Wow, incredibile… sono una grande! Ha paura! Ha paura!
Scema.  Quanto sei scema. Pensi di farmi paura. Ma mi vedi? Sono Bull. Tutto pelle e muscoli, nipote di un cane lottatore che ha vinto più di cento gare, su cui hanno scommesso milioni, morto eroicamente in combattimento a Malaga, dopo aver addentato musi e orecchie per tutta la vita… Io stesso instancabile e eroico lottatore. Sono stato rinchiuso in canile per via di una retata, con un orecchio e una milza in meno,  come soggetto pericoloso. Destinato ad un ergastolo, che sopportavo senza difficoltà,  perchè sapevo come farmi rispettare anche da cani lupo e rottweiler, sono stato inaspettatamente adottato da lei. Lei, la professoressa in pensione, tipo fine, gentile e delicato, tanto per far capire…: intellettuale di sinistra, tutta libri e niente palestra, ha chiesto espressamente di accogliere un cane con una storia difficile…  insomma, il cane che nessuno voleva. E agli operatori del canile non sembrava vero di liberarsi di me, borioso, prepotente e ribelle. Dopo un complice scambio di occhiate, l’hanno portata da me, con poche speranze in verità. Lei ha chiesto, tanto per opporre un’ultima resistenza:  ma fa tante bave? Di fronte a Bull, terrore di tutti i lottatori del nord europa, si preoccupava della mia salivazione? Avete capito in quali mani ero finito? 
E tu, Stellina cara,  hai capito con chi hai a che fare? Pensi ancora che io abbia paura dei tuoi artigli? Ice, il gatto di casa, ne ha di affilati. Ogni tanto lascia il segno.  Ma me ne frego dei suoi graffi. La paura no,  non so cos’è.  Se ti arrivo al pelo,  sì che capisci …

Giovedì
Potrei  andare vicino al cancello per dire prendimi prendimi – gli altri gatti non fanno così? - ma non lo faccio. Si potrebbe dire che lo provoco, passerei dalla parte del torto. Non so bene come comportarmi. Me ne sto qui a strisciarmi vicino al glicine, con aria indifferente.
Provoca, dai. Tanto ti prenderò- ti azzannerò nel collo, tac, un colpetto, e via.  Si spezza la spina dorsale. In un  attimo non ci sei più. - Verrà il giorno.

Venerdì
Non tutti i giorni mi sento di affrontarlo.  Oggi dormo. Questa continua attesa, questa aggressività sospesa nell’aria, questa precarietà… mi tolgono le forze, le fusa e la speranza.
Oggi non c’è. Torno domani. E dopodomani ancora.

Sabato
Non mi va più di stare a sonnecchiare al sole, e a far le fusa ai soliti passanti.  La mente non ha tregua, sono stanca. Devo pensare qualcosa. Cambiando orari e abitudini, così magari lo spiazzo.

Domenica
Non posso credere. E’ la mia occasione! La padrona ha lasciato scivolare il guinzaglio mentre parla con la vicina e le fa vedere le foto dei nipoti. Che sprovveduta!  E tu Stellina sei lì pochi metri. E il cancello è aperto. Mascella serrata, occhi infuocati… L’adrenalina sale… Con due salti posso  essere lì.  Mi guardi, hai capito. Non  reagisci, non miagoli, non rizzi il pelo, non soffi… Fai qualcosa, su. Fallo per me, sei la mia preda. Che soddisfazione c’è a prendere una preda che sta lì ad aspettare la sua fine.
Un balzo e sono da te. ..
Ma non faccio nulla, proprio nulla. Resto qui seduto e ti osservo.
Facciamola finita, su. Perché non corri da me? Che ti succede, che mi succede? Sono paralizzata, non riesco a muovermi.
No, non ti prenderò. Se ti uccido non sarai più la mia vittima. Voglio che tu sia la mia vittima per sempre.
Sta seduto e mi guarda. Sento i suoi occhi. Sento il suo respiro.
Sto qui e ti guardo.    

Lunedì
Non scendo. Non mangio. Non bevo. On gioco. Non dormo.
La mia vittima è provata. Le darò un po’ di tregua. Quando si sentirà fuori pericolo, mi  troverà di nuovo.  Bisogna far prendere aria alla paura. La paura bisogna coltivarla, alimentarla, lasciarla quietare, spegnere  per poi ridare fuoco. Altrimenti il gioco finisce.

Martedì
La mia padrona piange.
Chi fa piangere la mia padrona? L’essere più dolce, più gentile,  più buono. Lei che mi ha accolto con l’affetto che nessuno mai ha pensato di dare al mostro, a Bull, re dei combattimenti , il più forte, il più feroce, il più veloce dei lottatori, vincitore di 114 combattimenti , che riempie di terrore cani e uomini e fiori con un solo sguardo… E lei, principessa, che cerca il mio sguardo sorridendo  ogni mattina, e accarezza il mio orecchio strappato, e mi prepara la colazione, e mi porta a passeggio nelle ore più fresche, e cerca con cura gli amici adatti a me in modo che io  non mi senta solo… Lei, principessa, ha paura? Sento quell’odore familiare, acido e dolce insieme, di fiori putrescenti: l’odore della paura.
Sollevo il mio tartufo martoriato in  combattimento da Devil III, e sento odori confusi.  Muschio mescolato a borotalco e caramella alla fragola, caramella di quelle molli e appiccicose che restano sotto le unghie dei bambini, e  profumo alla rosa sulla pelle pulita di una donna giovane.
C’è qualcuno sotto. Lei sbircia attraverso le persiane chiuse. Scende sola. Io resto immobile. Fermo e impotente. Respiro muschio, rosa e caramella appiccicosa.   E fiori marciscenti, la scia che Principessa si lascia dietro.

Bull, il grande feroce sanguinario Bull, non può nulla. Accucciato a terra, guaisce.
Chi dice che i cani non pensano e non hanno sentimenti?
“C’è sempre un animale più feroce  di te”.
Questo pensa Bull mercoledì  20 luglio 2012 alle ore 8.05 di mattina, mentre Principessa  scivola fuori dal portone per andare al lavoro.

giovedì 7 giugno 2012

a proposito de "Le ricette della strega"


La strega Mafalda passa il tuo tempo appostandosi davanti alle scuole per catturare bambini, che  cucina in occasione dei sabba, per la felicità degli angeli del male che invita ogni anno.  Quest’anno le cose non sono andate per il verso giusto: i bambini che ha imprigionato  sono riusciti a liberarsi dalle loro gabbiette e si sono divertiti a curiosare nel suo mondo e a combinare scherzi. Per farla breve, i bambini ad un bel momento non erano più prigionieri ma amici, hanno preso a divertirsi alla grande tra magie, giochi e fiabe, e si sono rimpinzati con le prelibatezze di Mafalda. Sono stati alla fiera in un borgo medioevale con lei, e qui l’hanno salvata dall’aggressione di alcuni popolani che volevano mandarla al rogo. Hanno soccorso i  bambini del borgo irretiti dal pifferaio magico,  poi hanno partecipato al sabba e conosciuto gli angeli del male, e  liberato le “pallide fanciulle” prigioniere di Barbablù. Ma tutto finisce...

mercoledì 2 maggio 2012

Paolo e Alice - da "Le ricette della strega"


Paolo e Alice

- Mamma, guarda…
  Mamma?    
- Uff, quanto traffico,  ma guarda questo dove va… Cosa c’è Alice?
- Mamma, una strega…
- Già, una strega…Una strega?
  Da quando in qua credi alle  streghe? Harry Potter, gli gnomi, come si chiamano…Ma le streghe, quando mai?
- Ho visto una strega.
- E non lasciare ditate sui vetri...
Alice stava con il naso schiacciato contro il finestrino e continuava insistente:
- Ti dico che è proprio una strega.
- Mamma, che fai, stai a sentire le sciocchezze di Alice.- sbuffò Paolo. -  Non distrarti, che siamo in ritardo, come al solito…
- Ok. Ora supero questo cretino…
- Oggi c’è pure il compito di matematica la prima ora…
- Dai, non fare il noioso, siamo quasi arrivati.
- La prof starà già distribuendo i compiti.
- Ma che ti importa! Se non mi preoccupo io! Sei così bravo che fai tutto, e tutto giusto, in mezz’ora!
Paolo tacque mordendosi la lingua, che la mamma oltre a  non essere mai puntuale guidava da  cani, e non voleva distrarla oltre.
-Alice, che fai, piangi? Perché amore mio?
Ora anche Paolo osservava attento, turbato dalla figura nera che avanzava lentamente sul marciapiede.
- Guarda!
- Ma che cos’avete stamattina, lasciatemi, guidare…- Si girò spazientita, la mamma. E si zittì all’improvviso.

Eccola.
La riconosco.
E’ lei.
Tanti anni sono passati da quel pomeriggio d’estate.
Erano le due, e stavo nel lettone di mia madre,
la loro  nonna,
che mi obbligava a fare il pisolino,
quando una vecchia mendicante si è fermata al cancello
della casa di campagna.
Mia madre è scesa,
inquieta più del dovuto,
le ha detto poche parole gesticolando,
e la vecchia se ne è andata.
La mamma è tornata da me e mi ha sussurrato:
Chiudi gli occhi piccina, dormi.
Era la strega cattiva, ma se ne è andata, dormi tranquilla.
E io mi sono nascosta sotto le coperte,
convinta che quella vecchiaccia fosse proprio lo strega.
Mi sono addormentata, tremante
mentre mia madre mi rassicurava dicendo
che la strega non sarebbe tornata.

E sai che ti dico ora?
E’ lei.
Sì, proprio lei.

venerdì 23 marzo 2012

Il ragazzo che guardava passare i treni



I ragazzo guardava passare i treni per ore. Era lì al mattino presto, e il pomeriggio dopo la scuola. Era un passatempo insolito, e la gente che transitava ogni giorno alla stessa ora trovava sciocca questa abitudine. Il ragazzo doveva essere poco sveglio. Oltre che pigro. Ma si sa la gente che sale e scende dai treni ha fretta, insegue orari di lavoro o divertimenti o famiglie o amori, c’è sempre qualcuno ad attendere… e poi si abitua…e non fa più molto caso al ragazzo strano. I ferrovieri trovavano  ormai normale la sua presenza,  non facevano più caso a lui. Stava lì da sempre, era il suo posto, tutto normale.
Lui non guardava la gente, guardava i treni. Chissà che ci trovava. Sono tutti uguali i treni. Strano ragazzo davvero.  Non parlava con nessuno e nessuno lo cercava.
Niente lo distoglieva dai suoi treni, non c’era la realtà. Ma guarda se ha senso sognare osservando un treno. E poi se almeno si fosse messo a sognare  una fuga, un viaggio, magari alla rincorsa di un amore, o alla ricerca di soldi o fortuna,  insomma, di una storia qualunque. Era il treno il suo sogno.  Io sui treni ci sto da una vita e proprio non capisco cosa potesse trovarci. Prodotto di una tecnica imperfetta e rudimentale, ma  ai suoi occhi sfida ardita contro spazi sconfinati: l’eroismo della velocità conquistata con pochi mezzi.  Umiltà e coraggio. Sudore e vapore.
Quando succedeva qualcosa di insolito in stazione, lui era lì. Per forza, era sempre lì. C’era quando un uomo si è buttato sotto il treno. Chissà perché la gente sceglie di morire sotto i treni, ce ne saranno di modi.  Quando c’erano i manifestanti sui binari e il traffico è rimasto fermo per un giorno. Liti, traffici loschi… le stazioni sono così. E la polizia gli chiedeva, ma di solito lui diceva di non aver  fatto caso... La polizia capiva e lo lasciava stare.
Poi è successo che un giorno passando sul primo binario…non c’era più. Abbiamo pensato che non poteva essere: c’era qualcosa che non andava, non era mai successo. Forse qualcosa di grave, un incidente o una malattia. Avremmo voluto cercare, chiedere…  C i siamo accorti allora che il ragazzo era uno sconosciuto, e non avremmo saputo come cercare sue notizie. Poi si sa la gente è distratta, e ha fretta, sale veloce e va. Così ci siamo dimenticati presto, ed era come se il ragazzo non ci fosse mai stato.
Ogni giorno passo davanti alla panchina, quella del ragazzo, e gli occhi si posano lì con gesto automatico. E’ quasi sempre vuota. E salgo su treni che sono il mio lavoro. Treni sudici, sempre in ritardo, gente arrabbiata. Così quasi ogni giorno. Ma oggi è successo qualcosa di speciale. Il mio sguardo automatico ha trovato un ragazzo sulla panchina del binario uno: no, non quel ragazzo che ormai sarà un uomo, e non un passante che stava per mettersi in viaggio per lavoro, amore o altro..
Era, come quell’altro, un ragazzo che guardava passare i treni. Ed ero felice divederlo lì. Vi dirò che mi sono un po’ emozionato. L’ho osservato a sua insaputa e non ci siamo neppure parlati. E non capisco perché mi debba colpire tanto la sua presenza. Forse invecchiare mi ha intenerito il cuore: mi sembra che il mondo sia migliore se c’è quel ragazzo seduto al primo binario che guarda passare i treni. E sogna.   

Ginocchia sbucciate


Ginocchia sbucciate: questo è il ricordo della mia infanzia.
Mio padre veniva a prendermi all’asilo, quando avevo mal di pancia, con la bicicletta, e mi caricava sulla canna. Anche se stavo male, mi piaceva che venisse lui a prendermi, e non la mamma, e che mi caricasse sulla bici. Mi diceva attenta, non mettere i piedi fra i raggi. Cadevamo, ogni volta, ogni mal di pancia... Ginocchia sbucciate. Piangevo. Usciva una donna da una porta, a chiedere se avevamo bisogno. E’ rimasto un bel ricordo, nonostante il mal di pancia e le ginocchia ammaccate.
Patapam.
Cado, mi rialzo. E non imparo mai. I piedi finiscono fra i raggi, ogni volta…
Patapam. Canzone sorprendentemente bella di baglioni,  mai sentita sinora, trovata per caso su facebook.
Ho pochi ricordi di mio padre. È morto che avevo vent’anni, un giorno che ero al lavoro, lavoravo da pochi mesi. Nessuno ha avuto il coraggio di telefonarmi.
Ho pochi ricordi. Era alto, magro, sempre scuro di pelle, per me molto bello, non per me,  molto bello e  basta. Ho ancora una fototessera nella patente, è lì da più di trent’anni.
Parlava poco.
Ricordo che un giorno eravamo nell’orto. Mia madre mi sgridava per qualcosa che avevo combinato. Lui mi portava via per mano e sorrideva, come dire non farci caso, un sorriso come una scrollata di spalle… e  io dal basso lo guardavo…io così piccola, lui così grande
È così strano essere stata la bambina di qualcuno.
Patapam.


venerdì 16 marzo 2012

La casa in collina



"La casa in collina: villette sparse in mezzo al verde di queste dolci colline del monferrato. Sole, cielo, prati, fiori, natura…”
Lo sguardo domina la valle.
L’immagine del nuovo centro residenziale è rappresentata nell’enorme cartello, otto metri per cinque, che taglia il cielo azzurro in una giornata di sole primaverile.
L’autista e gli operai, dopo aver aspettato per mezz’ora l’arrivo dell’ingegnere, iniziano il lavoro. D’altronde la sua presenza non è indispensabile.
La betoniera inizia a versare il cemento nella fossa, gettando le fondamenta del nuovo grande centro residenziale.

Maria fa la commessa in pasticceria. Ed è l’attività giusta per lei, ama quel lavoro e quella vita. Maria è carina e dolce, pelle chiara e trasparente, viso tondo, guance rosate, labbra a cuore. Sembra un pasticcino, panna e fragola.
Nonostante sia così graziosa, è stata sola a lungo; questo perché lavorava molto e non ha mai avuto molto tempo per uscire; poi non amava i passatempi dei giovani di oggi, discoteche e locali…Ma forse non le è mancato il tempo…la verità è che è vissuta a lungo nel ricordo della sua famiglia, della sua infanzia. No, vivere nel ricordo non era affatto cosa triste per lei: una bella famiglia, una infanzia felice, in campagna, circondata dalla natura, dai fiori…
Quanti fiori nella sua infanzia, la sua infanzia nella casa in collina…
La casa si trovava proprio in cima alla collina, a due chilometri dal paese. Era una casa di campagna, una specie di cascinotto. Da una parte il cortile, dall’altra l’orto, e tutt’intorno un grande prato. Ci si arrivava da una stradina sterrata. La proprietà era delimitata sul davanti da una rete metallica, a cui si aggrappava una rosa rampicante di colore rosso vivo.
Maria era affezionata a questa casa, e in particolare alla rosa. L’aveva piantata la mamma quando lei era bambina. Era lì da sempre. Aveva resistito al rigore degli inverni e all’arsura delle estati, regalando puntualmente ogni anno a maggio una enorme nuvola di fiori resistenti  e di un rosso vivo. Quella era la pianta preferita dalla mamma, anche se c’erano rose più profumate e dai colori più delicati. Pensava che quella rosa contenesse l’anima della mamma.     
            I fiori della sua infanzia in realtà non erano le rose, erano le dalie. Fiori fuori moda…non si vedono nei giardini delle villette a schiera. Colori splendenti.. giallo arancione rosso porpora rosa fucsia viola…fiori certo non dei più raffinati…tanti soli spendenti sparati verso il cielo. Tutte le domeniche mattina la mamma le faceva recidere le dalie perché lei le portasse al campo santo. Un rito che si ripeteva sempre uguale. Fiori fuori moda per un’abitudine desueta. Non altri fiori, solo dalie, chissà perché. Così poco adatte al camposanto, con qui colori così violenti.  Lei tagliava i gambi della lunghezza giusta, componeva un bel mazzo, combinando ad arte i colori, e avvolgeva i fiori in carta di giornale, e si avviava verso il camposanto. Ogni domenica, finchè era viva la mamma.
Finchè era viva, mai una tomba senza un fiore.
Queste abitudini si perdono. Ora il campo santo prende colore solo a novembre. In ossequio ad un rito, fiori convenzionali, colori ordinari.
Solo dalie, mai rose. Ma forse il motivo si capisce, le rose sono i fiori di maggio, la stagione degli amori, non certo adatti al camposanto.
Maria non vive più lì, sta in città. Ma quando può torna ad annusare le rose di casa sua, poco profumate per la verità – le rose rampicanti non hanno profumo - e a passeggiare nell’erba; in casa guarda il calendario di dieci anni fa’,  con gli appunti sulla semina, il crocifisso, la foto dei nonni; sfoglia il quaderno con le ricette, scritte con la calligrafia regolare di chi non ha finito il ciclo elementare; apre i cassetti della cucina, pieni di strofinacci ricavati da vecchie tovaglie - ne servivano tanti per le conserve e la frutta sciroppata - . Nella casa tutto parla della mamma: le tende ricamate, i piatti riposti in un ordine sempre uguale, i soprammobili. Sicuramente, aprendo la credenza, avrebbe trovato l’ultimo lavoro a maglia a cui lei si dedicava al mattino presto, dopo aver acceso la stufa a legna, quando tutti erano ancora al caldo sotto le coperte. E il tavolo di marmo, sembrava ancora sporco di farina, dall’ultima domenica in cui, come ogni domenica,  aveva preparato a mano la pasta.  
Maria ha vissuto a lungo di ricordi. Ma ora non più, non è più sola: il cliente distinto, di mezz’età, che viene in pasticceria ogni domenica mattina, l’ingegnere, l’ha notata. La gentilezza, la finezza e il sorriso di Maria non passano inosservati. Ma è tanto riservata, pochi si fanno avanti. Lui ha avuto coraggio e intraprendenza, l’ha corteggiata. E ora capita spesso di vederli sulla passeggiata o al bar, nel giorni di riposo di Maria. Lui è un uomo importante, ricco. Maria è contenta, non perché sia interessata alle sue ricchezze, ma perché si sente protetta e al sicuro vicino ad un uomo arrivato.  Chi li vede mano nella mano si compiace di tanto amore.
Maria torna ormai di rado alla casa in collina. In occasione dell’ultima visita ha trovato dei bollettini di tasse arretrate da pagare. Lui si è offerto di aiutarla, come d’altronde è naturale che un uomo innamorato faccia: avrebbe provveduto a pagare, ma non solo, avrebbe fatto ben di più: le ha proposto di conferire l’immobile – la casa sulla collina – ad una sua società immobiliare, per risolvere i problemi finanziari del momento e prevenire quelli che si eventualmente si sarebbero presentati. Per dimostrarsi disinteressato, le ha intestato una procura a vendere. Le ha spiegato che questo documento garantiva che solo lei - e nessun altro – avrebbe potuto vendere la casa.  
La procura è stata riposta al sicuro in un cassetto del mobile dell’ingresso, a casa di lei; almeno lei avrebbe giurato di averla messa proprio lì.
Un anno dopo della casa sulla collina non c’è quasi più nulla, solo qualche  muro divelto. Resiste il capanno degli attrezzi, ancora appesi alla parete dove li aveva riposti il padre anni fa’: ci sono ancora zappe, rastrelli, falci, forbicioni, accette, insomma tutto ciò che serve per lavorare l’orto e il giardino.     
C’è una ruspa sull’orlo di una grande buca. Al posto della rosa rampicante l’ enorme cartello “La casa in collina, centro residenziale”.
Maria l’aveva pregato il giorno prima di accompagnarla lì, per vedere l’ultima volta la casa, o meglio quel che ne restava. Erano rimasti qualche minuto insieme, per l’ultima volta  insieme soli, sul bordo scivoloso della buca.

Gli operai hanno ormai finito, se ne vanno. Salendo sul camion, calpestano quei   fiori volgari dai colori accesi,  abbandonati tra il fango. Non capiscono  come possano essere giunti fin lì.
L’ingegnere non si sarebbe presentato in cantiere quel giorno, né il giorno dopo, anzi nessuno l’avrebbe più visto. Qualcuno parlava in paese di nuovi affari immobiliari in sud america,  qualcuno di una giovane straniera.

Maria continua a vendere pasticcini, sempre sorridente...solo i capelli sono un po’ più chiari, per via di qualche filo bianco. Potete incontrare il suo sorriso, dolce e senza tempo,  attraverso la vetrina di via del corso.
            

Il funerale



E’ stato un gran bel funerale.
Si dice sempre, come per dire che è stata una gran bella festa. E’ un paradosso, fa un po’ ridere. Ma questo di oggi è stato davvero un gran bel funerale. Ora spiego: c’era tanta gente, non solo, era bella gente: cerano un sacco di colleghi - gli uffici della banca devono essere rimasti chiusi per l’occasione, come nelle feste nazionali -, poi cerano i  pochi parenti;  i vicini di casa e gli amici - non numerosi ma partecipati e affranti -; non potevano mancare “gli amici dei cani”, cioè i frequentatori del parco, padroni dei cani amici di Luna; alcuni  si erano presentati con i loro amici a quattro zampe, che avevano per brevi momenti manifestato la loro vicinanza al defunto - dimostrando una sensibilità anche superiore agli umani - abbaiando con toni sommessi e uggiolando. Le inconsuete manifestazioni di affetto sono state tollerate e  anzi apprezzate dai padroni. E anche dal defunto, cioè dalla defunta, cioè da me..  
Sì, sto parlando del mio funerale.
Dicevo gran bella festa perché finalmente ero al centro dell’attenzione, solo io, per un’ora. In una chiesa gremita. A saperlo morivo prima…e quanti apprezzamenti…Gli amici si prodigavano nei complimenti di rito,  i colleghi elogiavano la mia efficienza; non vi dico com’era affranto il direttore, che non sapeva come colmare il buco del conto economico dopo la mia prematura dipartita (prematura non per via dell’età - avevo  ben 48 anni al momento del trapasso – ma rispetto alla chiusura dell’esercizio); la mia vicina di scrivania, stanca dei miei pettegolezzi e delle mia vanteria, si è sorpresa a pensare che finalmente ci sarebbe stato un po’ di quiete, e pentita aveva subito recitato cinque ave maria; per darsi un tono tormentava con le mani un inutile fazzoletto, perfettamente asciutto.
Vi chiederete: gli uomini del passato si sono visti alla cerimonia?
L’ex marito sì, dietro insistenze dalla figlia, l’ultimo fidanzato no….e questo pensiero mi disturba ancor oggi molto…perché da tempo avevo dato disposizione alla ragazza perché lo cacciasse platealmente dalla chiesa a calci nel sedere…e questo non si è presentato…ma i manifesti funebrui li hanno messi in tutta la città o no? Sarà che non facevo parte della buona società…
Ora tutto è finito, se ne sono andati tutti, la chiesa si è svuotata. Anche Luna se ne è andata, seguendo da vicino la bara.
Ma forse c’è ancora qualcuno là in fondo, in penombra.
Quel tipo con la giacca senza cravatta, che sembra così triste, chi è? Ha un fiore tra le mani. Una rosa bianca. E’ per me? E che fa ora? Piange? Per me?

Comunque bisognerebbe raccontare la storia con un certo ordine.
Certo, perché prima del funerale c’è stato un morto. E prima c’è stata una storia…
Allora torniamo indietro. La mia morte è cosa di tre giorni fa’. E si è trattato di una vicenda tragica e inquiteante.

Tutto iniziò, assai banalmente, con un mutuo.
Io mi vantavo all’epoca dei fatti di essere una grande venditrice, nel mio settore, se non la migliore in assoluto. Vendevo mutui, in una piccola banca. Non accettavo l’insuccesso: i mutui erano tutti miei. E non era per diligenza, per fedeltà all’azienda o per interesse, era una questione di principio: ero la migliore e basta. 
Erano tempi duri, tra un terremoto, una guerra e una crisi politica internazionale la depressione dilagava, e non si compravano più case. E non si facevano più mutui. Ma inaspettatamente una buona operazione si prospettò circa un mese fa’. Il candidato mutuatario era persona assai poco cordiale e simpatica, ma magnanimamente lo degnai di qualche sorriso, e lo inondai di illuminanti spiegazioni su euribor, spread, cap, inflazione, e su tutte le disgrazie mondiali presenti e future con cui strumentalmente infarcivo qualsiasi tipo di operazione finanziaria, calamità che rendevano indispensabile quel particolare tipo di mutuo che avevamo solo noi sulla piazza. Il tipo non si fece più vivo per qualche settimana; arrivò invece un assegno, congrua caparra per la casa. Lo contattai allora con l’astuta scusa di un aggiornamento sulle condizioni di mercato, il cliente si presentò con un prospetto recante le condizioni della berry’s, che con voluta nonchalance mi fece scivolare dinnanzi. Come vidi il logo blu mi andò il sangue alla testa. Sicuramente arrossii. -  Bianchi, di nuovo tu! Ma non ce la farai neppure questa volta.
-          Bene, si è fatto fare un altro preventivo, è sempre opportuno un confronto…- sorriso,  con tutta l’ipocrisia del caso.
-          Sì, vede qui, il due per cento – e un sorriso perfido accompagnava la risposta
-          due per cento? Bene, ma questo non è un preventivo, il piano di ammortamento dov’è? Poi, tutto scritto a mano…Non è conforme al codice europeo…
-          Sì ha ragione, è un prospetto alla buona, ma è un due per cento, e la rata è di 620 euro, la vostra è di 680.
-          Guardi, senza piano di ammortamento non posso fare confronti, come posso fare ipotesi su come si ammortizza il capitale nel tempo…- in realtà sapevo bene che il due per cento era un due per cento, non c’erano scuse..
-          A me interessa la rata …
Con esibizioni da acrobata ho cercato di confrontare la rata dell’ammortamento cervellotico inventato da qualche psicopatico raccomandato dell’ufficio studi della mia banca con un ammortamento francese, nella sua illuminata linearità.
-          La rata è più bassa…
E io vedevo chiaramente che questo si compiaceva del mio insuccesso e del mio imbarazzo: mi chiamò più volte dottoressa Rossi, ponendo l’accento su “dottoressa” con compiacenza. Geometra diplomato con 36 in una oscura scuola privata. E poi si è appena separato, è lei che l’ha mollato, così lui ce l’ha con tutte le donne.  
-          Ma non potete proprio fare queste condizioni?
-          Non possiamo – e lui gongola.
-          Dovrò poi estinguere il conto.
-          Le farà firmare lo stampato il ragioniere della berry’s. - sì, credi che ti preghi di restare… - arrivederci, anzi no, mi sa che non ci rivedremo…
-          Ma lei lo conosce il ragionier Bianchi?
-          No, non conosco impiegati della berry’s. Perché dovrei?
Invece lo conoscevo, lo conoscevo bene il ragionier Bianchi.
Da quando avevano montato le insegne azzurre, che orribilmente deturpavano la facciata di un palazzo antico sul viale, a poche centinaia di metri dal mio ufficio, osservavo l’interno, cercando di non dare nell’occhio, mentre portavo Luna a fare il giretto del mattino. E le avevo dato l’abitudine di fare pipì proprio davanti all’ingresso. Bianchi l’avevo visto qualche volta dalla vetrina, e per lungo tempo mi sono compiaciuta del fatto che gli uffici fossero deserti. Finchè qualcosa cambiò: forse convenzioni con le agenzie, promozioni, pubblicità. Cominciai a  fare sempre meno vendite, e dopo un po’ di tempo capii…Altro che tzunami e gheddafi, era Bianchi che si portava via i miei mutui.
Dopo l’ultimo insuccesso scopo della mia vita divenne la lotta aperta a Bianchi. Avrei combattuto con ogni mezzo quel losco figuro, e la sua indebita invasione del mio territorio. Ne andava della mia dignità di venditrice. Perché un venditore è tale nell’animo, e non può veder leso un tratto  essenziale della propria identità. Ne va dell’integrità del suo io…
Al mattino seguivo gli spostamenti del mio uomo, portando fuori luna. I primi giorni l’avevo visto in giacca e cravatta, poi aveva cominciato vestirsi sportivo. Non era uno di quei tipi infighettati, finto abbronzati…era uno normale, persin simpatico. E questo mi dava  assai fastidio. Avrei preferito odiare uno dall’aria rampante e in carriera, uno di questi insopportabili giovani arroganti, vanesi e ambiziosi, quanti ne avevo visti nel mio ambiente…No, glielo leggevo in faccia, con 25 anni di banca avevo  acquisito un po’ di intuito: era uno giusto, uno regolare, magari corretto e gentile   Pur essendo inverno arrivava in bicicletta, col berretto in testa e la sciarpa tirata su fin sul naso. Lo incontravo a volte all’edicola,  prendeva il ventiquattrore e il quotidiano – lo stesso che prendevo io - ; a volte lo incrociavo mentre  usciva dalla panetteria con la focaccia. Mi dovevo impegnare ad odiare uno che veniva a lavorare in bici e non in suv, che leggeva il mio stesso quotidiano e comprava la focaccia al mattino. Chissà, magari aveva anche lui un cane. Ma in guerra non c’è spazio per romanticismi.  Dato che ci vedevamo ormai tutte le mattine, lui, incontrando il mio sguardo, accennava ad un sorriso e ad un saluto, ma io prontamente distoglievo lo sguardo, decisa a non cedere…Non avrei mai degnato di un sorriso o di un saluto un impiegato della berry’s, mai.
Trascorsero alcuni mesi in cui i clienti venivano a chiedere informazioni sui mutui e poi prontamente sparivano. Io continuavo al mattino a portar fuori luna e a osservare il nemico, finchè un giorno me lo trovai proprio a fianco, bicicletta alla mano, all’attraversamento pedonale davanti ala panetteria; la vetrina blu della berry’s era proprio lì di fronte, dall’altra parte del corso. Il quattro stava arrivando a tutta birra dalla rotonda – nessun mezzo rallenta alle rotonde del corso, neanche i bus. In quel momento un fulmine mi attraversò la mente. Diedi uno sguardo furtivo al marciapiede deserto. Una spinta, una piccola impercettibile spinta, nascosta dalla mantella in cui ero avvolta e dal grigiore del mattino invernale. Solo che non era destino…lui stava per perdere l’equilibrio quando… luna vide uscire da sotto un’auto un gatto, non un gatto nero, il solito gatto rosso che stazionava lì tutte le mattine. Dato che Luna era attenta alla difesa del territorio quasi quanto me, e odiava i gatti – quel gatto in particolare - quasi quanto io odiavo Bianchi, fece un balzo per raggiungerlo, dandomi così  uno strattone violento con il guinzaglio. Mi colse di sorpresa, perché ero concentrata sul  tizio che mi trovavo a fianco, e sbilanciata in avanti nelle spintarella…Per farla breve, l’equilibrio lo persi io. E in quel preciso istante passò il quattro.


Il direttore



Tra dieci minuti sarebbe arrivato il nuovo direttore. Laura, la giovane dell’ufficio,  aveva l’abbigliamento giusto per l’occasione.Tailleur grigio, trucco lieve e capelli in ordine. Aspettava in piedi vicino alla porta.  Rosa non era altrettanto elegante; ad impedirglielo erano il cattivo gusto e i cento e passa chili. Aveva fatto comunque uno sforzo, era più femminile del solito: abito a fiorellini e un filo di perle. Stava sistemando la scrivania, buttando fogli, spruzzando detersivo liquido e asciugando con lo scottex, cercando così di allontanare la tensione. Gaetano leggeva il giornale, indifferente a tanta agitazione.
-          Potevi almeno metterti la cravatta, che ti costava?
-          Non me ne importa niente se arriva quello, sai quanti ne ho visti passare di direttori…tutti uguali, ne mandassero uno che capisce qualcosa…
-          Sempre discussioni, sempre le stesse…non potremmo cercare di fare una buona accoglienza…e una buona impressione?
-          Voglio ben vedere se ha qualcosa da dire a me, che dovrei essere in pensione da tre anni!
-          Ma smettila. Vacci in pensione, su, vai, così non siamo più costrette ad ascoltarti…sei ancora qui?
Discussioni di questo genere tra Rosa e Gaetano si ripetevano uguali circa una volta la settimana. Fortunatamente cercavano di parlarsi poco. Già c’era stata il giorno prima un’animata discussione fra i due per l’orario: Rosa aveva insistito per far arrivare puntuale Gaetano, e ce l’aveva fatta , ma per l’abbigliamento non c’era stato nulla da fare.  
Quando Laura vide  la decapotabile bianca parcheggiare sulla piazza davanti all’ufficio del catasto fece zittire i colleghi e, rivolgendosi a Rosa:
-          Hai visto che bella macchina?
-          Macchina da mafioso o da viveur..- intervenne Gaetano.
-          Laura guarda, è pure un bel ragazzo, che tipo fine…
-          Sarà proprio lui? E’ così giovane…
-          E’ anche elegante…
Gaetano tornò a  dar segno di vita:
-          Giovane e bello, se lo dite voi…ma capelli ne ha meno di me.
-          Ma sono di moda i capelli rasati per i giovani, che ne capisci tu…
Il nuovo direttore entrò sorridente, salutò giovialmente, dimostrando di conoscere già i nomi di tutti, cosa che impressionò favorevolmente le signore.
Cominciò poi ad arrivare il pubblico per le solite pratiche: visure, copie di mappe e di atti.
Le pratiche dell’ufficio del catasto erano alquanto noiose, ma il nuovo direttore portò in breve tempo una ventata di allegria e giovialità fra il personale – con la sola eccezione di Gaetano – e fra il pubblico. Si intratteneva volentieri a chiacchierare con colleghi e utenti. Gli piaceva parlare, e questo piaceva alla gente.  Parlava di tutto, ma in particolare di case (argomento vicino all’attività dei geometri che si rivolgevano all’ufficio) e  di auto (altro oggetto di conversazione sempre gradito dai frequentatori, prevalentemente uomini). La gente si divertiva sentendogli dire:  -Vedrete vedrete che un giorno mi faccio una ferrari….  
La passione per le auto andava contagiando tutti. Persino il geometra (nessuno ricordava il suo nome, tutti lo chiamavano così) alla veneranda età di settantanove anni decise di rinnovare la patente e di acquistare una nuova auto, una stupenda …
Il direttore cercava di attaccare bottone con Gaetano, il quale però non  voleva saperne di concedersi. Ripeteva – un po’ per urtare il proprio capo e un po’ perché ne era davvero convinto -  che non c’era macchina migliore della sua twingo (una twingo – orrore – di colore bordeaux).
Anche il lavoro trasse beneficio da questo nuovo clima. Rosa e Laura, pur indugiando ogni tanto in chiacchiere futili fra loro e con il capo, sbrigavano velocemente le loro pratiche. Lui le invitava a volte a far colazione – comportamento inisuale per un funzionario del loro ambiente: Rosa accettava di buon grado mentre Laura rifiutava con una scusa, arrossendo. Rosa ben comprendeva il motivo del rossore.
Un giorno il direttore passò dall’ufficio con una bella ragazza, che presentò a tutti come la fidanzata. Laura si rabbuiò. Ma la cosa per fortuna durò poco: l’impiegato della banca che si recava lì tutti i giorni per le visure trovò finalmente un pretesto per parlarle:
- Come mai è così triste signorina, è successo qualcosa, non sta bene? Posso invitarla a prendere un caffè? - Lei questa volta accettò, e così pure nei giorni seguenti.
Il clima nell’ambiente di lavoro era sereno come non era mai stato. L’unico escluso da questo idillio era Gaetano, sempre curvo sui suoi tabulati, disposto a rispondere al direttore al più con un grugnito.
Col tempo qualcosa cambiò. Il direttore cominciò ad essere meno partecipe alla vita dell’ufficio. Cominciò a tenere la porta chiusa. Presero a verificarsi eventi inconsueti che preoccupavano Laura e soprattutto Rosa. Arrivavano tramite corriere dei pacchi, a volte di grandi dimensione, che venivano depositati nell’ufficio del capo. Le due colleghe misero da parte la privacy per motivi di forza maggiore:  esaminarono e tastarono con attenzione gli involucri, pur senza capire.
-          Sa solo lui che casini combina… -  disse  Gaetano, non perdendo occasione  per criticare.
In seguito il direttore si estraniò sempre più, in quanto si dedicò ad una ristrutturazione predisposta dalla sede contrale, con modifiche anche importanti della struttura. Coordinava gli interventi e seguiva i lavori. Ovviamente Gaetano trovava da ridire anche su questo:
-          Una porta di sicurezza larga cinque metri vuole fare…ci deve far passare la Torino Savona? Ma robe da matti!
Quando poi il direttore decise di ampliare il proprio ufficio, allargandosi in quello limitrofo, che era – caso vuole – quello di Gaetano, le reazioni verbali di quest’ultimo furono violente; seguirono due settimane di malattia da parte del collega.
Un nuovo problema si ebbe quando arrivò la tanto temuta circolare ministeriale che annunciava la chiusura dell’ufficio locale: uno sportello di tre persone in un paese così piccolo non aveva motivo di essere. E tutti temevano per la propria sorte, facevano ipotesi delle più tragiche sul proprio trasferimento. Persino Gaetano sembrava uscito dall’abituale apatia…Ma il direttore era del tutto assente. Nessun commento. Continuava a restarsene chiuso nel suo ufficio.
I lavori procedevano bene, l’ufficio lavorava comunque, ma lui non stava mai con i colleghi. La sera poi non usciva ormai più con loro per il solito caffè, si fermava fino a tardi. E quegli strani rumori provenienti dalla direzione che si sentivano ogni tanto, rumori di oggetti pesanti che cadeva voglio vedere  se ha qualcosa da dire no, rumori metallici…cos’erano?
Una cosa preoccupava Rosa in particolare: il direttore non faceva mai entrare nessuno in ufficio. E chiudeva la porta a chiave quando se ne andava. Non era tranquilla. Cosa nascondeva? Qualche pratica riservata? Qualche contestazione o un errore? Una qualche situazione di pericolo?Avevano sempre condiviso i problemi, Laura volenterosa e lei esperta l’avrebbero aiutato…Com’era possibile, non si fidava più di loro? Comunque voleva sapere.
Così una sera si trattenne oltre l’orario, lasciò uscire Laura e Gaetano dicendo che avrebbe messo via dei documenti. Per non insospettirli si lamentò del fatto che toccava sempre a lei quella sgradita incombenza. E rimase  nascosta in archivio, con l’orecchio teso…Per ore lui non uscì dall’uffico. Alle sette era ancora lì. Si fece coraggio: sarebbe andata a fondo, avrebbe fatto luce in quel mistero. Si avvicinò piano all’ufficio, girò con cautela la maniglia. Inaspettatamente la porta si aprì subito, non era chiusa a chiave.  
Un lungo - Oooooooo.
Non poteva credere ai suoi occhi.
Splendente elegante sensuale imponente…
Una ferrari rosso fiammante, col suo bravo cavallino ben in visto sul cofano. Il parafanghi davanti premeva contro lo schedario, quello dietro contro il muro in cui si doveva aprire a giorni la nuova uscita di emergenza; la scrivania era stata spinta da una parte., ed era ingombra di ferri.
-          Una ferrari…ma è stupenda! – E le venivano le lacrime agli occhi - Rosa si commuoveva facilmente - di fronte al realizzarsi di quel sogno impossibile.
Era davvero una ferrari costretta in quello spazio angusto, angusto anche dopo l’ampliamento ai danni di Gaetano. Rosa finalmente capì cos’era successo. Pensò che avrebbe potuto prevederlo. Tutti quei pacchi recapitati per corriere, i rumori metallici… Ora era tutto chiaro.
- L’avevi detto: mi faccio una ferrari…
Poi parlarono d’altro, Rosa non voleva essere  invadente, difetto che le veniva spesso attribuito.
Nelle settimane successive il direttore inaugurò la ferrari portando Rosa, orgogliosissima, a fare un giro per la città. Accompagnò anche Laura al matrimonio, due mesi dopo. 
E Gaetano? Gaetano non ne volle sapere di mettere il sedere sulla ferrari, non si fidava del meccanico – che se un direttore non sa fare niente figuriamoci se sa montare una ferrari - , ma sembrava che in questo modo volesse restare fedele alla parte che recitava da sempre. Tuttavia il giorno del matrimonio di Laura si piazzò davanti all’auto, a cofano aperto, e rimase più di un’ora ad osservare le meraviglie di quegli ingranaggi.

L’ufficio chiuse qualche mese dopo: Laura fu trasferita nella città vicina, mentre Gaetano e Rosa andarono in pensione. Continuarono a vedersi tutti i giorni al parco, dove si recavano per portare a spasso il cane – lei – e per acquistare il quotidiano –lui. Gaetano abitava dall’altra parte della città, e aveva un’edicola sottocasa, ma non poteva fare a meno dei consueti battibecchi.
E il direttore? Si licenziò e se ne andò in circostanze misteriose, tra la preoccupazione dei colleghi.
Solo due mesi  dopo ebbero finalmente sue notizie: arrivò a Rosa una rassicurante mail da Maranello.   

La caccia al tesoro



La ragazza se ne stava a letto tra sonno e veglia, delirante. Un girotondo di immagini e suoni la stordiva. Aspettava che succedesse qualcosa, che qualcuno venisse a salvarla. Invece non venne nessuno, se non alcuni parenti dall’espressione affranta, forse convinti di partecipare a un funerale. A un cento punto sentì dei passi per le scale, si alzò e trovò la porta d’ingresso spalancata. Se n’erano andati tutti, senza chiudere la porta? Si convinse ingiustamente che questo dovesse far parte del delirio.
Attendeva un segno. Sentì finalmente il suono insistente di un clacson in strada, e pensò che era lui (lui chi?) che la aspettava.
La caccia al tesoro cominciò.  
Si buttò giù dal letto e si vestì in un attimo, indossando abiti nuovi, acquistati appositamente per quell’occasione: una gonna nera corta a fiorellini giallo e arancio che scopriva gambe lunghe e abbronzate, una maglia gialla - una tinta pastello -, una giacca anch’essa giallina. Stava proprio bene vestita così. Solo non fece caso ai cartellini coi prezzi ancora attaccati, cosa che le avrebbe fatto notare la vicina poco dopo, per le scale. 
Scese in strada aspettando di trovare un’auto ad attenderla, cercò con lo sguardo una macchina in seconda fila. Alzò le spalle, stupita ma non indispettita. Era un gioco. Sapeva di dover stare al gioco. E il gioco era fatto di regole che qualcun altro aveva disposto, e che lei neppure conosceva.
Doveva cercare. Cercare la via, cercare gli indizi, essere attenta ai segnali. Le indicazioni erano imprevedibili, e doveva essere pronta a percepirle, osservando e ascoltando con mente aperta, senza idee preconcette.
Il colore giallo. Ecco, quello doveva essere il segnale. Era il suo colore. E si avviò decisa verso un’auto gialla, ma non trovò nessuno alla guida. Si guardò intorno perplessa. Ecco un altro oggetto giallo: un cassonetto dei rifiuti. Guardò tutt’intorno al contenitore, niente che le indicasse la via. Con encomiabile perseveranza procedette, aprendo il coperchio del cassonetto: non vide nient’altro che quotidiani stropicciati e cartoni. C’era qualcosa che non andava. Non era quello il segnale.
Non si scoraggiò. Si guardò nuovamente intorno, e alzando gli occhi trovò finalmente: sulla facciata della sua casa c’era una grande bandiera italiana esposta, si trovava proprio sotto la finestra del suo soggiorno. Chi poteva averla messa lì per lei? E in alto tante file di bandierine tricolori attraversavano la strada.
- E’ evidente, questo è il segnale!
 Seguì i festoni – ce n’era uno all’incirca ogni 10 metri – e camminò per la città con lo sguardo sempre rivolto in alto, alle bandierine. Entrò nel centro storico, seguendo sempre i segnali, fino a che, ad un bivio, vide bandierine sia a destra che a sinistra. Bandierine in tutte le vie. Si fermò un attimo a riflettere; quell’ostacolo doveva avere un significato, era una prova. Ma non riuscì ad afferrarne il senso. Prese una via a caso.
Le bandierine la portarono davanti alla chiesa. Pensò che avrebbe dovuto parlare col prete, ma le dissero che non c’era. Evidentemente non era lui che poteva aiutarla.  Non era più così sicura di trovare qualcosa o qualcuno. Ma proseguì comunque per la sua strada, come se ci fosse un compito da svolgere fino in fondo.
Continuando a seguire le bandierine arrivò ad un portone aperto, ed entrò in un grande cortile  deserto. Rivolse la sua attenzione al casermone abbandonato che circondava il cortile: entrò in un lungo angusto corridoio e visitò una serie di stanzette fatiscenti.  Giunta in fondo fu costretta a ritornare indietro.
Tornò in cortile. Sentì ridere. Qualcuno c’era nel casamento. E voltandosi vide degli uomini affacciarsi da una finestra in alto. La guardavano e ridevano.  Pensò potessero essere loro…ma sembravano solo ridere di lei.
No, non erano loro. Non c’era nessuno, niente e nessuno. Seguì ancora le bandierine, ma ormai in modo automatico, senza aspettarsi più nulla. Si ritrovò sulla via di casa. Con le lacrime agli occhi.
La caccia al tesoro era finita.  
Nei giorni successivi avrebbe saputo che la città era stata decorata con le bandierine in occasione di un raduno degli alpini