venerdì 16 marzo 2012

Senza luce


La luce finì alle 17.25 del 15 dicembre 2010, domenica.

Lei era a letto, leggeva, aveva a fianco libri e giornali, nuovi e vecchi, nel consueto disordine, quando la luce si spense. Guardò fuori: un po’ di luce filtrava dalle tapparelle, non era poi una sera così buia. Oltre alla luce si spense la tv, che teneva accesa più che altro per compagnia. Sbuffando chiuse il libro, posò gli occhiali e si girò da una parte, pensando di schiacciare un pisolino in attesa della luce.
Dopo dieci minuti stabilì di non aver affatto sonno, e si alzò. Sbirciò fuori, tutto buio, deserto. Pensò a dove poteva aver messo le candele. C’e n’erano sicuramente con gli addobbi di natale… in cantina, splendido. Ne aveva comprato di color crema, attorcigliate, per cene romantiche, ma, data la scarsità di cene romantiche le aveva seppellite dietro piatti e bicchieri nel mobile del soggiorno, e al buio come arrivarci? Ecco, le candele gialle  per le zanzare, quelle alla citronella – candele erano pur sempre -, le avrebbe trovate facilmente. Insomma, facilmente…erano come previsto nello sgabuzzino, sullo scaffale in alto, peccato che davanti c’erano anche  altri oggetti spinti su alla rinfusa, e che precipitarono tutti a terra. Ma la scatola contenente le candeline era ben salda nelle sue mani, era il primo oggetto che aveva afferrato.
Un sospiro di sollievo, aveva le candele.
Ora però bisognava pensare a come accenderle.
Non doveva essere complicato. Con i fornelli a gas? Facile…se non fosse che aveva solo piastre elettriche! Un accendino…Non fumava ma ne aveva tenuto uno per le emergenze, appunto. L’aveva messo, dove…in cucina, nel cassetto fra posate e piccoli attrezzi. Bastava cercare. Al buio. Con la mano passò in rassegna il contenuto, non trovò, pensò alla figlia che diceva di non fumare ma non ci avrebbe messo la mano sul fuoco…cominciò a sudare…niente, non c’era.
La mensola sul termosifone. Quando si usava un piccolo oggetto, cioè forbici biro clips, e non si aveva voglia di riporlo, si posava lì sopra. Passò la mano delicatamente sul disordine della mensola e…eccolo…l’accendino! Esultò. Manco avesse trovato inaspettatamente una banconota da 500 euro. Sospirando felice accese una candela.
Finalmente una luce. Non era una gran luce, illuminava in un raggio limitato. Ma era pur sempre una luce. Accese subito una seconda candela, nell’eventualità che la prima si spegnesse. Ora finalmente poteva fare qualcosa…ad esempio telefonare. Telefonare alla sua amica. Non con il fisso, che ovviamente non funzionava, col cell. Raccontò all’amica, in salvo all’altro capo della città, della disavventura, e si dedicarono ad alcuni pettegolezzi, tanto per allentare la tensione. Dopo aver concluso la conversazione avrebbe voluto mettere sotto carica il cellulare, ormai scarico, ma  non era possibile. Quindi non avrebbe potuto più telefonare. Questa non ci voleva. Certo, a pensarci, avrebbe potuto fare qualche chiacchiera inutile in meno.
Intanto il tempo passava, erano le 18,30, e la luce non tornava.
Chissà se qualcuno aveva già telefonato all’enel. Sicuramente sì, l’intera via era al buio; ne era certa, qualcuno si era già mosso.
Il cane, sinora quieto e del tutto indifferente al problema energetico, cominciava a girarle intorno; voleva uscire. Lo portò fuori. Passando davanti alle porte dei vicini fu tentata di suonare il campanello, pur non avendo una gran confidenza con loro. Restò con la mano a mezz’aria e l’abbassò. Proseguì verso l’uscita.
Le vie erano buie e deserte. Anche senza luce, la gente avrebbe potuto uscire. Buio per buio… Dov’erano tutti? Nessuno usciva col cane, nessuno andava a trovare parenti e amici. Rientrò, trovò naturale cercare l’interruttore, ma non successe nulla.
L’inattività cominciava a innervosiva: niente televisione, niente musica, niente pc. Provò a leggere qualche pagina del suo libro, ma abbandonò quasi subito, un po’ per via della luce troppo bassa, un po’ perché non si sentiva tranquilla. Erano ormai passate due ore, e la luce non tornava. Non c’era mai stata una interruzione così lunga.
Pensò al frigorifero, alle cose che potevano andare a male in freezer: quanto poteva resistere chiuso in quella stagione?
E se non fosse più tornata? Certo, di solito la luce tornava. Dopo dieci minuti, mezz’ora, un’ora. Ma non era mica detto. Che ne sapeva lei. Poteva essere un guasto grave, non immediatamente riparabile. Non riparabile.
Si affacciava ogni tanto alla finestra per vedere se passava qualche furgone dell’enel: niente.
Poi, doveva per forza trattarsi di un guasto dell’enel? Visto il protrarsi della cosa, poteva essere qualcosa di più grave, chissà, ma cosa?
Erano le otto. Cominciò a pensare a cosa mangiare quella sera. Non poteva cucinare. Qualche biscotto e un frutto. Non voleva aprire il frigo per mantenere la temperatura. E se la corrente non fosse tornata, che cosa consumare prima? Cominciò a fare il conto della possibile durata delle scorte alimentari. Senza corrente i negozi non avrebbero potuto aprire. Poteva andare avanti per una decina di giorni tranquillamente. Ma in una situazione di allarme sarebbe stato meglio ridurre le dosi, e resistere un po’ di più. Tanto era in sovrappeso. Anche Luna. Poi qualcosa sarebbe successo. La protezione civile probabilmente era già in azione.
Il silenzio, che inizialmente  le sembrava la restituzione di uno spazio suo incontaminato, col passare dei minuti e delle ore si faceva pesante. Era il vuoto.
Le candele si consumavano. Con l’aiuto dell’ultima fiamma andò a cercarne altre nel mobile del soggorno. Faceva freddo. I termosifoni erano gelidi, probabilmente anche la caldaia si accendeva con la corrente. Si mise due maglie, poi anche il giaccone. Avrebbe potuto andare sotto le coperte, tanto, per oziare così…ma voleva essere sveglia e vigile al ritorno della luce.
E se si fosse trattato di una guerra?
Manca la luce quando inizia la guerra o non c’entrava niente? Sicuramente c’entrava. Una guerra civile o una guerra-guerra? Una guerra nucleare? Poteva trattarsi di un incidente in una centrale nucleare, una nuova Cernobyl? Tutto poteva essere: senza televisione, isolati dal mondo, come sapere.
Notte: erano ormai le undici. Prese il cane, una scorta di crocchini e una ciotola, un pacco di biscotti    e due bottiglie d’acqua – si sa che si muore prima di sete che di fame – Andò all’auto, salì con Luna, girò la chiave e – meraviglia – la macchina si mise  in moto. Certo, normale che si mettesse in moto, non aveva bisogno di corrente. Avrebbe cercato la luce! Almeno avrebbe capito se era al buio solo il quartiere, o la città…o tutto il mondo.
Era contenta di essere uscita da quella casa buia fredda e silenziosa, le sembrava quasi una gabbia. Era contenta di trovare tecnologia funzionante.
Andò verso il centro, percorrendo vie tutte uguali: buie, silenziose e deserte. Avrebbe voluto trovare la luce. Ma, visto che la luce non c’era,  avrebbe voluto almeno trovare qualcuno, qualcuno che sapeva, qualcuno che le dicesse il perché: hanno avvisato ieri dell’interruzione del servizio, la produzione di corrente è diminuita, ci sono prove di evacuazione in caso di emergenze. In assenza di gente informata, si sarebbe accontentata di incontrare qualcuno come lei, impaurito come lei, per condividere quell’ansia.  Niente di tutto ciò, il deserto. Era notte fonda ormai, ma la città di solito era animata a tutte le ore, mai vista la città vuota.
Non si perse d’animo. Lasciò il centro, attraversò la periferia dirigendosi verso la città più vicina.
Intanto la mente continuava a cercare il senso di quella situazione assurda.
Forse sbagliava. Non era un guasto, non era guerra. Neanche Cernobyl.
Semplicemente  era la fine del mondo, ecco, questo era. Pensava:- Tutto finisce. Il mondo finisce oggi qui. Forse è già finito, e ci siamo solo più Luna e io. Però la fine del mondo non è cosa da poco, non può capitare così, mentre sto in pigiama e leggo Camilleri davanti alla televisione sintonizzata su domenica in, e Luna rosicchia il suo osso di gomma…
Pensava a qualcosa di grandioso, rumore, o musica classica…Wagner o Behetoven, un temporale violento, vento lampi e fulmini, alberi che cadono. Invece stava nella sua twingo, con il parabrezza che si bagnava di una pioggerellina noiosa, in un silenzio di tomba rotto solo dal motore dell’auto.
Una luce arancione: di questa luce on aveva proprio bisogno. La spia della benzina, non ci voleva.  Poteva prevederlo: come poteva andare alla ricerca di terre lontane sfuggite al disastro, spingendosi fino ai confini del mondo, con venti euro di benzina? Metteva sempre venti euro di benzina. Una breve imprecazione e riprese la via di casa. Tentare di fare il pieno ad un automatico? Neanche a pensarci, impossibile che funzionasse un distributore in quell’apocalisse. Poteva esserci il rischio di un’esplosione. D’altronde, visto che il mondo era deserto, era forse meglio rifugiarsi nella propria tana, da cui poco prima non vedeva l’ora di fuggire .
Rientrata a casa si infilò nel letto  vestita. Luna stava ai suoi piedi, stranamente tranquilla, partecipe alla gravità del momento.  Avrebbe voluto con gesto automatico puntare la sveglia. Cosa impossibile e anche inutile, dato che il mondo era finito già da un po’. Si addormento subito, stremata per il tanto pensare.
Si svegliò di soprassalto: uno squillo…uno squillo insistente…Che c’entrava il telefono? Come faceva a suonare il telefono? - Ma che ti è successo? Cos’è questa voce da oltretomba? Sono le nove. Di nuovo non ti è suonata la sveglia? Al solito, qualcosa di grave, ok, Sbrigati dai, che c’è un sacco di lavoro…Ma no non preoccuparti, non manchi solo tu, qualcun altro è andato a dormire senza puntare la sveglia. Sai, è mancata la luce ieri sera.


Litio


Da Wikipedia, l'enciclopedia libera

Il litio è l'elemento chimico della tavola periodica che ha simbolo Li numero atomico 3. Appartiene al gruppo 1 (metalli alcalini). Il litio, nella sua forma pura, è un metallo soffice color argento, che si ossida rapidamente a contatto con l'aria o con l'acqua. È il più leggero degli elementi solidi ed è usato principalmente nelle leghe conduttrici di calore, nelle batterie e come componente in alcuni medicinali (farmaci antipsicotici) per la stabilizzazione dell'umore… I sali di litio, come il  carbonato di litio e il citrato di litio, sono stabilizzatori dell'umore usati nel trattamento di malattie come il disturbo bipolare dell'umore.
Iniziò la terapia dopo il primo episodio di delirio, mantenendo sin da principio un rapporto conflittuale con le pastiglie blu. L’idea della stabilizzazione non le garbava poi molto, le sembrava che la guarigione fosse la condanna ad una vita, banale, senza emozioni, senza colori, senza arrabbiature e senza grandi gioie. Un diagramma piatto. Questa madonnina ben stabilizzata, quieta e gentile, di solito sorridente e a volte di una melanconia misurata…non era lei. E le era pure antipatica.  Ma era questione di sopravvivenza. Essere stabilizzati serviva per lavorare, per occuparsi della famiglia, per stare in mezzo alla gente. Per essere quel che si dice normale. Voleva dire essere protetta dagli sbalzi d’umore, soprattutto dalle punte più alte: il litio funzionava meglio contro l’euforia che contro la depressione. Consentiva una vita triste e sana, tendenzialmente regolare ma senza emozioni.
Il litio era necessario come altre medicine. Come il serenase,  per cui nutriva simpatia perché convinta desse davvero serenità, allontanando cattiverie, ingiustizie, passioni e violenze. La serenità veniva nello spazio di una notte…Il medico diceva - forse mentendo - che il medicinale serviva solo contro il delirio. Non cambiò idea, il serenase rimase per lei indispensabile nei momenti di crisi. Le era ben più gradito dell’aldol, a volte somministrato in alternativa, che scoprì con delusione essere la stessa cosa.
Il litio fece parte della sua vita per lungo tempo. Quando si trovava di fronte a una decisione importante - soprattutto se doveva affrontarla da sola -, una rottura, un ribellarsi a affetti consolidati, un contravvenire alle regole…sentiva quel peso stabilizzante che le impediva di agire.
Allora sospendeva la cura.
Amori finirono e altri iniziarono, tra un TSO e un ricovero in clinica. Momenti di forte emotività difficili da gestire riguardavano non solo situazioni sentimentali, ma anche conflitti nell’ambiente di lavoro, e  in generale tutti gli eventi che avevano a che fare con la sua realizzazione personale.
Qualche anno fa’ lamentò con il medico la presenza di effetti collaterali – in particolare il mal funzionamento della tiroide – e ottenne così finalmente di sostituire il litio con una nuova cura. Questo capitò in concomitanza  alla rottura con il compagno di allora. Lei scoprì in quei giorni che lui le aveva rubato dei soldi. A seguito della scoperta si recò dallo specialista per fare una domanda che non avrebbe osato rivolgere a nessuno, tanto se ne vergognava.
Raccontò a medico di come lui si fosse appropriato delle somme che gli dava da versare sul conto della ditta, di cui lui teneva la contabilità da tempo, di come lei non avesse mai dubitato. Gli chiese:
-          E’ un’allucinazione?
-          No, non è un’allucinazione. E’ una truffa.
Il litio aveva giocato il suo ruolo anche qui: lei riteneva che senza la sospensione non avrebbe saputo prendere coscienza del problema, avrebbe continuato a fare lo struzzo, a preferire una routine fondata sull’inganno. Il cambiamento di cura fu comunque considerato fallimentare dal medico, in quanto il suo stato d’animo era alterato, pur in assenza di allucinazioni. Così le venne di nuovo somministrata  la vecchia cura.
Recentemente un ennesimo rifiuto della terapia accompagnò un evento positivo: bastò ridurre le dosi di poco per ritrovare il piacere di scrivere, il ravvivarsi delle emozioni, sollecitate dalla scrittura. E il mondo diventava improvvisamente interessante e colorato. Una sorta di incontinenza la portava a inventare e scrivere tutto e subito. E non si era mai sentita così poco stabilizzata come quando stava sveglia fino a tardi - dopo il lavoro, la spesa e la casa - per scrivere un racconto: le sembrava una felicità non prevista, illecita.
Tutto sommato aveva imparato a convivere bene con il litio, considerando utile, più che la cura, la sospensione
Infine, dopo gli ultimi eccessi, una visita di controllo.
L’incontro con lo specialista si protrasse per più di un’ora. Lei ascoltò una dettagliata e articolata spiegazione sul funzionamento del farmaco; spiegazione che la lasciò perplessa, dal momento  che  lo assumeva da ormai sedici anni, pur con dosaggi diversi: del litio sapeva ormai tutto. Seguirono chiarimenti sulle analisi di laboratorio, tre pagine di esami …reni fegato tiroide… Seguì poi la lettura di un testo della casa farmaceutica, anzi il medico le sottopose due testi simili a confronto. Vi erano termini scientifici poco comprensibili, quindi fu necessaria una rilettura, seguita da nuove spiegazioni. Infine lei capì. E cominciò a piangere senza freni. Il medico imbarazzato e preoccupato cercò di consolarla…poi lei alzò il viso e prese a ridere a crepapelle…
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera:
Placebo: per placebo si intende ogni sostanza innocua o qualsiasi altra terapia o provvedimento non farmacologico (un consiglio, un conforto, un atto chirurgico) che, pur privo di efficacia terapeutica specifica, sia deliberatamente somministrato alla persona facendole credere che sia un trattamento necessario. Per effetto placebo si intende una serie di reazioni dell'organismo ad una terapia, non derivanti dai principi attivi insiti dalla terapia stessa, ma dalle attese dell'individuo. In altre parole, l'effetto placebo è una conseguenza del fatto che il paziente, specie se favorevolmente condizionato dai benefici di un trattamento precedente, si aspetta o crede che la terapia funzioni, indipendentemente dalla sua efficacia "specifica". L'effetto placebo contribuisce non poco anche all'efficacia di una terapia specificamente attiva: per discriminare tra queste due componenti si progettano gli studi clinici controllati contro placebo che quando possibili anche sotto il profilo etico sono considerati il gold standard della ricerca clinica. L'effetto placebo è fortemente influenzato da una serie di variabili soggettive quali la personalità e l'atteggiamento del medico (iatroplacebogenesi) nonché le aspettative del paziente.

La matrioska


La matrioska. Tante bambole goffe e panciute, una dentro l’altra.
Questa matrioska l’ha comprata la mamma ad un mercatino di zingari.
L’ha pagata poco, perché era un gioco vecchio, usato.
Difatti contiene bamboline  di colori diversi, di provenienza diversa,
messe insieme in base alle misure.
Ma io ho voluto proprio questa
per i tanti colori brillanti,
e la mamma ha detto massì,
è anche quella che costa meno.

L’ho aperta tante volte.
Tutti i giorni la apro.
Metto le bamboline in ordine, una vicino all’altra.
La prima bambola, la più grande, ha il vestito fucsia e il velo viola,
capelli biondi tenuti su da un pettinino, pomini rosa,  ciglia lunghissime, labbra a cuore che sorridono, ma appena appena. Un grande mazzo di fiori rosa e azzurri fra le mani.
Dove vai bambolina? Dimmi, dove vai?
Dove hai preso questi bei fiori, in campagna, nei prati?

La seconda bambolina, più piccola, ha il vestito giallo, con un pizzo disegnato in fondo.
Il viso simile alla prima, ma i capelli  ricci e la bocca più all’insù
Dove vai bambolina, con quel bel vestito e quei bei boccoli dorati?
Al ballo, sicuro, vai al ballo
E i fiori rosa e azzurri te li ha regalati un innamorato, vero?.

La terza bambolina, ancor più piccola,  ha il vestito bianco
Il viso è lo stesso, sempre bello, ma  senza espressione.
Qualcosa c’è di diverso
Il velo  sui capelli è scuro, più scuro dell’abito.
Sembra grigio, anzi un nero sbiadito.
Bambolina bambolina,
hai avuto un grande dolore, un lutto?
Per chi sono i fiori rosa e azzurri? Li porti al campo santo?

La quarta bambola è la mia preferita
È tutta vestita di giallo come la seconda, e il giallo mi mette allegria.
Ha le guancie più colorite e i capelli più ricci.
Sei felice vero bambolina? Sorridi…
Ma cosa vedo.
Il vestito è macchiato.
Una macchia rossa
al posto dei fiori colorati.
Dimmi bambolina, senti male?
Qualcuno  ti ha fatto del male?
Bambolina bambolina, sorridi sempre?

L’ultima bambolina è uguale alla prima.
Abito fucsia, capelli biondi,
guance rosa, bocca a cuore.
Piccolina piccolina
Sei uguale alla tua mamma.
Sorridi.
Ti scuoto ora.
Non c’è più niente dentro.
Dovrebbe esserci la bambola che ride
un’altra triste
poi quella ferita.
E poi
di nuovo…

Bamboline, chissà se siete contente di stare sempre vicine, se vi parlate, se questi sorrisi a cuore e questi sguardi bistrati sono per le vostre amiche. Di voi nessuna racconta del ballo, del velo nero, del male. Già, è vero, siete fatte di legno e di vernice, non parlate e neppure vedete…
Ecco, le urla sono finite. Tra un attimo sentirò la porta sbattere. Ecco, infatti…
Ora posso mettervi a dormire bamboline e tornarmene in cucina.
Bamboline state brave state zitte,
fatevi buona compagnia.
Brave, zitte.
Domani torno.
 

Il cancello è sempre aperto


La ragazza era di casa nella grande villa: una villa antica, con l’atrio che si affacciava su di un bel cortile decorato da enormi vasi fioriti, con al centro una enorme fontana. Ma soprattutto bellisso era il parco. Quanto verde! Prati, alberi, cespugli! C’erano piccole sorgenti, fontane con bocche di leone, tavoli e panche per sostare. La villa era situata in alto sulla collina, ed era possibile ammirare il verde rilassante che digradava fino al lago.
-          Il cancello è sempre aperto - questo diceva il medico per esaltare le qualità del luogo.
-           Non preoccupatevi, nessun paziente è mai arrivato al quel cancello con le sue gambe - averebbe poi precisato per tranquillizzare i familiari.

Lei era contenta di stare lì. Era estate. Le sembrava di essere in vacanza.
Quel giorno portava un abito corto scollato, che le donava perché era abbronzata. Vide il ragazzo. Sedeva solo vicino alla fontana. Gli parlò. Lui aveva i capelli rasati, indossava una polo dai colori vivaci. Le raccontò la sua storia: viveva solo, i padre era morto di recente. Un giorno tornando a casa lo aveva trovato appeso al soffitto. Il ragazzo raccontò di alcune persone che gli avevano fatto del male. Ma non era arrabbiato, non se la prendeva con nessuno.
-          Almeno hai una fidanzata, degli amici?
-          La ragazza mi ha lasciato. Di amici sì, ne ho: sono i vicini di casa, hanno promesso che mi vengono a trovare.  
-          E come sei venuto fin qui?
-          Con l’ambulanza” – il ragazzo arrivava dal reparto psichiatrico di un ospedale di provincia .
-          Vuoi fare una passeggiata?
-          Sì. Andiamo.
Il ragazzo e la ragazza si allontanarono fianco a fianco. Percorsero lentamente il lungo viale immerso nel verde che conduceva al cancello sempre aperto. Andarono oltre, e proseguirono la passeggiata fino al paese. Insieme raggiunsero la chiesetta. Era piccola, spoglia, essenziale, con un grande cristo in croce. Ritornarono indietro.  
“Il cancello è sempre aperto”.

La ragazza ritornò a casa controvoglia dopo qualche giorno. Del ragazzo non seppe più niente. Non ha mai neppur saputo il suo nome. 

Gattomio e Priscilla ovvero Storia di una rapina


500.000 euro sono tanti. Cioè, non lo so, chi li ha mai avuti 500.000 euro? Come dire un miliardo. Una roba immensa…non essere milionari…miliardari, ragionando in lire.
No, io non ho tutti questi soldi, almeno non li ho di mio. Non sono povera:  ho uno stipendio discreto, i buoni pasto, ventimila euro di risparmi, il fondo pensione, la casa col mutuo… nel mio piccolo sto bene, sono fortunata con i tempi che corrono.
Sta di fatto che 500.000 euro sono qui, ora. Qui, a casa mia. Sul tavolo della cucina, sulla tovaglia, vicino agli avanzi della cena. Ma mica posso stare tutta la sera a guardarli. Ora li faccio su e li sposto in camera, sul letto.
Perché sono qui tutti questi soldi? Li ho rubati. Già, rubati. Li ho presi in banca. No, non “presi” come a dire “prelevati”.  Li ho proprio rubati.
Io ci lavoro in una banca. Mi è venuta un giorno in mente questa idea balzana: fare una rapina.
Non è che ci si svegli la mattina con l’intenzione di fare un colpo in banca, nella banca in cui si lavora poi! C’erano degli antefatti: avevamo subito un mese prima una rapina: il solito balordo col taglierino si era fatto dare quel poco che c’era nel cassetto ed era volato via. Io quel giorno non ero al lavoro perchè in ferie, e mi ero sentita in colpa,  non avendo condiviso con i colleghi un evento così stressante. E non ero presente neanche quella volta che avevano fatto riverniciare i termosifoni con il riscaldamento acceso al massimo, e si era diffusa per i locali una puzza chimica pestilenziale: erano stati tutti male, eccetto me … che ero all’outlet per vetrine.
Tornando alla rapina del tipo col taglierino, mi ero chiesta: qualcuno avrà per caso sospettato di me? Mi sentivo in colpa per la mia assenza, questo è evidente!  Qualcuno poteva aver  pensato che avevo predisposto io l’atto criminoso, rimanendomene appositamente a casa? La risposta è no, assolutamente no, nessuno poteva aver sospettato di me. Non per considerazioni morali – anche se sono una persona di sani principi, onesta fino al midollo – ma per il fatto che sono considerata totalmente inguaribilmente irreversibilmente priva di senso pratico, incapace di organizzare alcunché, men che meno una rapina. Questa critica bonaria nei miei confronti la leggevo quotidianamente negli occhi dei colleghi rassegnati quando annaspavo cercando un cavo staccato del pc o vagavo nella intranet aziendale lamentando la sparizione di un documento che era sempre stato lì, era sicura…Però non mi andava di essere considerata un’eterna imbranata. Allora mi è venuta in mente questa cosa, in grado di riscattarmi: un’impresa complicata e eclatante e to’, pure disonesta. Avrei dimostrato a me stessa di essere capace di tutto, pur pagando il prezzo di non poterlo gridare al mondo.
  
Ma passiamo all’esposizione dei fatti:
secondo il mio progetto mi sarei appropriata di quel poco che c’era in cassaforte per le operazioni di sportello – una miseria - e avrei svuotato i due bancomat, che contenevano il grosso delle giacenze,  250.000 euro l’uno.
Arrivò il grande giorno, venerdì venti novembre. Ero certa che tutti sarebbero andati fuori dai piedi alle cinque (pettinatrice, figli da portare a basket e riunione a Milano con i capi). Timbrai in uscita e  mi fermai, sola. Mi accinsi ad aprire le cassaforti collegate ai bancomat, appena caricate, lasciando per ultimo il cassetto, che non presentava particolari difficoltà.
I bancomat erano due: un aggeggio vetusto di enormi dimensioni nero, e una macchina più moderna, piccola e dalle forme eleganti, di colore bianco. L’abbinamento non era casuale, ma frutto della creatività dell’addetto all’immagine - architetto all’avanguardia, fino a qualche anno prima impegnato nel settore della moda, cugino di secondo grado dell’amministratore delegato -  che aveva inoltre insistito per un fondo color pervinca. L’effetto cromatico era inusuale ma piacevole.
Aprire un bancomat non è cosa facile.  Non avevo le combinazioni. Sarebbe stato un gioco da ragazzi se a caricare il bancomat fosse stato Piero. Le pass maschili sono banali e prevedibili; gli uomini, si sa, non hanno una gran fantasia, e questo vale anche in banca. Bancodelmonte: alle otto e mezza ogni mattina  trentamila tra cassaforti e computer si aprivano con la stessa chiave. Ogni anno si cambia il codice, per motivi di sicurezza: bancadelmonte1, bancadelmonte2; oppure bancadelmonte2010, bancadelmonte2011. Ahimè, era Rosy a occuparsi dei caricamenti. Le password femminili sono più varie e emotive: in presenza di fidanzati o mariti freschi di matrimonio conterranno il nome del compagno. In presenza di figli, si procede in ordine di peso affettivo… e vai con i nomi dei pargoli… Dopo la maggiore età e il sommarsi di tante incomprensioni con la prole, si passa ai nomi degli animali domestici, fedeli e affidabili per l’eternità. Sono queste le password più stabili, con le consuete varianti 2,3,4.  
I due bancomat non sono stati installati contemporaneamente. Partii decisa dal più vecchio, l’antiquato macchinario nero, digitando sul tastierino senza esitazione: G A T T O M I O. Attesi qualche secondo. Qualche minuto. Niente, non si apriva.
Eppure ero sicura. Mi concentrai…
-          Ecco, Gattomio ha tredici anni, Rosy è qui da cinque, quindi ha cambiato cinque pass…G A T T O M I O 5.
Digitai con attenzione…niente…  
Avevo solo un ultimo tentativo. Sudavo…
G A T T O M I O  2 0 1 1.
Clic.
Lo sportello si aprì  di scatto. Passai senza esitazione alcuna al secondo bancomat: P R I S C I L L A  2 0 1 1!
E ora, a noi!- Tirai fuori  i cassetti di Priscilla, legai i soldi con gli elastici e li deposi nelle borse di plastica… E ora toccava a Gattomio.
-          Bravo mi raccomando…
Gattomio è stato il primo gatto adottato dalla collega: raccolto al gattile ferito e spelacchiato, fu curato e nutrito con amorevole dedizione da Rosy. Si era rivelato un vero gattaccio randagio, sempre pronto a mordere e graffiare, a dispetto delle attenzioni ricevute. Esempio assoluto di ingratitudine ferina. La piccola Priscilla era invece una siamesina dolce e affettuosa, proveniente da casa di colleghi, insomma una gattina di buona famiglia.
Ed ecco, come feci per estrarre i cassetti di Gattomio…
-          Ahi! Ma che fai, mi graffi? Sei scemo? Eppure mi conosci, mi vedi tutti i giorni…
-          Trun trun…
-          Cosa sono questi versi… Dovevo immaginarlo… Solo Rosy può mettele le mani qui dentro...  – e ricordai quella volta che il tecnico, dopo aver armeggiato per due ore nei suoi ingranaggi, ci aveva lasciato un dito… Avevamo dovuto portarlo di corsa al pronto soccorso.
E mi venne da ridere… Mi spiegavo molte cose sul mal funzionamento di Gattomio2011. Era il bancomat più lento e rumoroso della città, vergogna  della banca. Come Gattomio, quello vero, ce l’aveva col mondo ed era sempre pronto a graffiare e a mordere. Eppure Rosy si prendeva cura di lui come di Priscilla2011, premurosa e imparziale: non faceva mai mancare soldi, carta per gli scontrini, toner…faceva oliare gli ingranaggi quando necessario.  Nonostante tali e tante attenzioni, ricevevamo spesso lamentele dai clienti, che riferivano di soldi ricevuti in meno – e misteriosamente tutto quadrava sempre – e  di scontrini non stampati. Per non parlare delle tessere trattenute...Io e i miei colleghi avevamo notato che i clienti che venivano allo sportello a reclamare le proprie carte inghiottite  dalla macchina erano di solito antipatici e pretenziosi, o  addirittura maleducati: “in questa banca non funziona mai nulla”, con le varanti “banca di m…”, “bancomat di m…”,  “questa volta vedrete, chiudo il conto e vado alla cassa di risparmio…”. Non sarà che per caso Gattomio va a simpatia? Ad esempio, al professore era capitato già tre volte di farsi portar via via la tessera…
-          Gattomio, ma ti sta proprio antipatico il professore? Che ti ha fatto?
-          Scccccc
-          Ah, già, hai ragione, viene col cane… Ora fammi finire qui. La lettiera – cioè, no, la cassettina degli scarti – lasciamola pure per la tua mamma, potresti avertene a male se disturbo oltre la tua intimità… Ecco qui, ho estratto tutti i soldi…
-          Trun trun.
-          Massì, tranquillo, non ti lascio a digiuno per due giorni. Due mazzette da dieci bastano? Ecco, una anche per Priscilla. - E mi scappò una carezza alla gattina tenera, che dava sempre silenziosamente scontrini e soldi, docile e precisa.
-          Gattomio?
-          Trun?
-          Ma ti ricordi di quella volta che è venuto il ragazzo nuovo per la ditta dei valori – sì, quelli che portano i soldi col furgone blindato – e Rosy gli ha offerto il caffè, e sono stati due minuti, non di più, a chiacchierare – si sentiva sin dal salone il cinguettio di Rosy – e, al loro ritorno, misteriosamente si è sganciato il carrello della carta, e il ragazzo si è inciampato, è caduto… E aveva un segno nel polpaccio… sì, proprio come un morso!
-          -Trun, trrrrrrrrr
-          Sei geloso, che ridere…
-          Trun…
-          Sì, geloso, geloso…  Che fai, alzi le spalle? Ma non hai spalle… Ecco, ho svuotato tutto. Una coccola ciascuno e vado. – Da Priscilla, carina ma monocorde, arrivava il solito mrrrrr mrrrrr. 
Richusi le cassaforti, sistemai i borsoni, e mi avviai ben carica nel buio della sera, pensando a Rust2011 sciallato sul divano, che doveva ormai aver fame….ero in ritardo per la cena.

Ora sono tranquilla a casa con i soldi. Nessuno sa nulla, nessuno dubita di me.
E nessuno dubiterà di me perché, come dicevo,  sono un po’ stranita, viaggio a un metro da terra. Incapace di quadrare una cassa, figuriamoci di rubare… I soldi non me li fanno mai toccare in banca, non sono considerata affidabile. Ogni volta che chiedo a Rosy se ha bisogno di aiuto, risponde sempre –  Ho tempo, tranquilla, non disturbarti…
Ma sta di fatto che i soldi li ho rubati e sono qui. Non so cosa ne farò. Però ora mi tolgo uno sfizio:
Disfo le mazzette. Spalmo i soldi ben bene sul letto, li mescolo e spiegazzo.
E nuoto.
A rana.
Stile libero.
Dorso.
Non mi riesce bene il dorso.
Dovrei provare di nuovo a fare un corso di nuoto.
Di nuovo a rana, meglio…
Sono stanca, sono fuori allenamento, mi manca il fiato.
Ora mi riposo un po’.
Penso. E’ venerdì, ho due giorni e tre notti, tutto il week end per decidere.
Per decidere cosa fare dei soldi. E di me.
Di me con i soldi.
Ma ora vorrei solo godermi questo momento, e non pensare ancora al da farsi.
Ci penso invece.
Come si fa a non pensare tanti soldi, standoci seduta sopra? 
Perché li ho presi i soldi?
Mica mi servono.
Quelli che ho mi bastano
per i vestiti, i libri, il cinema e qualche cena fuori,
non vado neanche in vacanza,
per via di Rust.
Sono stata sempre così,
poco interessata e un po’ depressa.
Già da bambina…

Ricordo come un incubo quel tema assegnato dalla maestra in quinta elementare:
“Cosa faresti se avessi a disposizione una piccola somma di denaro?”
Pagina bianca.
- Anna, che ti succede?
Quante volte avevo sognato quel tema.
Ero brava in italiano, come in tutto il resto, d’altronde. Ancor oggi, quando incontro per strada la maestra ottantenne, mi abbraccia e mi bacia commossa, dicendo com’eri brava, d’italiano poi…
Ma quella pagina bianca non ha trovato mai riscatto.
Io non sapevo cosa fare di una piccola somma di denaro.
I giochi e i libri non mancavano, i vestiti ancora non mi interessavano,
poi, goffa com’ero, che farmene.
Le compagne meno brave ma furbine parlavano di regali a genitori e fratelli…: una collana di perle vere per la mamma…
Forse tutte le mamme volevano collane di perle vere, ma io avevo genitori anziani e poco amanti delle futilità. Erano come me, cioè io ero come loro…Mia madre, che io ricordo da sempre con i capelli grigi e la pelle cotta dal sole della campagna, non me la vedevo proprio con una collana di perle vere…
Ma la pagina bianca pesava non tanto per il brutto voto incombente.
Sentivo che il mio comportamento non era normale.
Se vinci una piccola somma di denaro
devi riuscire a spenderla,
anzi devi essere entusiasta di questa opportunità.
Invece no.
Chissà se è stato proprio in questa occasione o in un’altra simile
che mi sono accorta di essere diversa,
insomma, inadeguata.
Di non saper vivere.
Così è successo in seguito di esser tacciata di snobismo. Dicevano di me: una  con la testa per aria, con la puzza sotto il naso… che arie da intellettuale.
Allora io mica sapevo di esser così.
Solo non sapevo che fare dei soldi
e della mia vita.
E ancora adesso…
Ancor oggi, come vorrei sapere che fare di una piccola somma di denaro e scriverlo,
e poi fermare la mia maestra in panetteria
e consegnarle il mio quaderno,
ben ordinato, senza sbavature né orecchie…
chissà se sono in tempo a consegnare…
Beh, organizzare una rapina e amministrare 500.000 euro vale enormemente più che destinare la piccola somma,
ma non posso farci un tema
da mostrare alla maestra Ines in panetteria il sabato mattina.
E poi, mentre raccolgo le banconote spiegazzate, volate sotto i mobili, rifletto
sul fatto che non saper spendere è brutta bruttissima cosa.
È davvero non saper vivere.
È non apprezzare ciò che con i soldi si può avere,
recare offesa al valore di cose tanto belle e buone.
E’ non desiderare nulla…
Bisogna essere sciocchi, pazzi, o almeno ingenui.

Basta con questi pensieri…il rimedio è qui, in questo mare di soldi.
Faccio su un po’ di banconote di tutti i tagli - qualche migliaio di euro - e le metto nella borsetta.
Mi vesto, mi trucco con cura ed esco. Mi dirigo decisa verso il negozio di abbigliamento più caro ed esclusivo della città. Entrando ho l’impressione che la commessa mi guardi sorpresa. E’ altissima e strizzata in un bellissimo tailleur rosa. Ascolto i consigli di cui mi degna  la tipa. Mi mostra tanti abiti morbidissimi bellissimi….e io vorrei scappare. Non posso. Misuro i capi suggeriti dall’indossatrice, e mi guardo tristemente allo specchio, che sembra dire: che cavolo ci fai tu dentro quel capolavoro, come ci sei entrata? Deposito tutti gli abiti provati sul bancone… - Scusi, non mi ci vedo. – L’espressione ora perfida della commessa esprime chiaramente il suo pensiero: - Non hai neanche i soldi per comprarti un paio di calze qui… - Volo via veloce, e per consolarmi mi infilo nel negozio amico. Che ha abiti da 40 euro, che mi stanno molto meglio di quegli altri e mi sorridono amichevoli e sgargianti dallo specchio; e trovo qui commesse con qualche chilo di troppo che non mi fanno sentire troppo fuori posto.  Esco con un bellissimo abito intero con una fantasia in verde e nero, che mi sta a pennello. Cammino leggera per il corso ma… ho speso solo 40 euro? Ho bisogno di rubare 500.000 euro dalla banca per comprare un vestito che ne costa 40?  L’avrei poturo comprare comunque...
Ecco un’agenzia viaggi. Guardiamo le proposte: città del nord, mari esotici. Avendo tanti soldi, bisogna fare viaggi. Essendo soli, bisogna fare viaggi. Tutti mi dicono, da sempre: pensa a divertirti, fai un bel viaggio.
So bene che non farò un bel viaggio. Perché non voglio lasciare solo Rust2011, e non mi fido ad affidarlo ad altri. Rust mi ha tenuto compagnia negli ultimi tredici anni di vita da zitella, e non lo baratterò giammai con un viaggio alle Mauritius. I soldi non mi fanno dimenticare i miei principi.
Giusto, non dimentichiamo i valori…Sono fedele ai miei valori di solidarietà, di carità cristiana…Ecco cosa farò dei soldi: li porterò in chiesa, da don Beppe; vado di sera quando non mi vede nessuno e stipo per bene le banconote nelle cassette delle elemosine, sperando che ci stiano tutte. Certo non lascio i borsoni con la refurtiva a terra,  magari qualcuno se li porta via.
Però, mi sa che non è poi una grande idea:  porto al parroco i soldi rubati? Non sarà peccato? Ma rubati a una banca, che sarà mai…. Bisogna anche dire che faccio beneficienza con soldi di cui non so proprio cosa fare: non mi privo di niente: non mi pare bello. Poi c’è una complicazione: che diranno  a don Beppe quando porterà in banca tutti quei soldi, due giorni dopo la rapina?  I preti sono soggetti a controlli e segnalazione sul possesso di contanti come tutti gli altri? Mi vedo già don Beppe in questura…Non posso fargli questo.

La situazione è complicata. Ho tanti soldi, ma non mi servono. Volendo metterli da parte per eventuali future esigenze, non saprei come fare. Darei nell’occhio portandoli in qualsiasi banca. Tenerli a casa non è prudente, ci sono i ladri. Nono resta che  portarli indietro.
Eccomi qui che ammucchio di nuovo il bottino nelle borse, e mi rimetto in marcia. Sono le due di notte della  domenica. Cappello, sciarpone, cappottone, irriconoscibile….
-          Salve, Anna, porta la spazzatura a quest’ora?
-          Sa, l’insonnia – solito vicino impiccione.
Eccomi di nuovo in banca.
-          Trun.
-          Ok Gattomio. Lo sapevi. Non potevo farcela.
-          Trtun trun trun…
-          Lasciami in pace, ho la testa piena di pensieri…
-          Trun trun trun.
-          Gattomio che c’è? Sono venuti a prelevare? Hai già la pancia vuota?
-          Trun
-          Ci penso io tranquillo. – e comincio a estrarre dalle buste il bottino e a sistemarlo nei cassetti.
-          Trun. Trun trun. Uffff.
-          Ma certo, non sono mica scema! Ve li metto in ordine i soldi! Pensavi li buttassi dentro così tutti mescolati…. Sei come i colleghi anziani, sempre pronti a brontolare. Certo, anziano lo sei, tredici anni per un gatto sono una bella età …
Comincio a dividere  le banconote, rimescolate in occasione della nuotata, disponendole in pacchetti ordinati tenuti insieme da elastici. Mentre le sistemo e predispongo una quadratura, faccio mentalmente ordine nel mio personale bilancio mensile. I conti sarebbero quadrati perfettamente, se son fosse che avevo comprato, nell’euforia della momentanea ricchezza, un vestito, una maglia, un paio di orecchini di bigiotteria e un profumo, complessivamente centotrenta euro. Poi avevo lasciato nella cassetta di don Beppe cinquanta euro, per scusarmi del disagio che era pronto a procurargli, e per chiedere perdono del pensiero peccaminoso. Avevo mandato anche cinquanta euro a emergency, vergognandomi di aver programmato la beneficienza unicamente per liberarmi della refurtiva. Quindi il mio conto dovrebbe essere in rosso di duecentotrenta euro, e devono ancor passare il mutuo e sky prima dell’arrivo dello stipendio. Avessi almeno estinto il mutuo…
-          Mrrrrrr
-          Ma no, non è niente, non sono triste. Hai ragione tu, Priscilla, fossero tutti qui i problemi.
-          Ecco fatto. Finito. Che dite, tutto bene?
-          Mrrrrr
-          Trun.
Ok, ora chiudo e vado a dormire. Non pensavo fosse così stancante rapinare una banca.
-          Ciao Priscilla – accompagno il saluto con una carezza.
-           ciao Gattomio, mi raccomando fai il bravo. Che il lunedì mattina arriva come sempre il professore….
-          Trun trun…

A casa  mi addormento di sasso. Sogno un cofanetto di velluto blu. Aprendolo con delicatezza vedo una raffinatissima collana di perle – perle vere -. Con cura la sollevo. Voglio  metterla al collo della maestra Ines, ma mentre sollevo il filo, questo si spezza, e le perle cadono  sul pavimento di linoleum  della scuola , rotolando via in ogni direzione. La maestra Ines mi guarda accigliata e depone sul foglio protocollo il primo e ultimo due della mia carriera scolastica. E io annuisco triste e rassegnata.
E mi sembra di aver capito tutto.

La stanza


Quanto disordine.
Dico sempre che dovrei ordinarla.
Ogni sabato apro la porta e richiudo, spaventata da tanta confusione.
Ogni volta dico: ci vorranno giorni, non ho tempo, e rimando.
Oggi mi faccio coraggio.
No, non avevo paura del tanto lavoro.
Mi disorienta e mi emoziona maneggiare cose della tua vita,
della tua quotidianità di qualche anno fa.
Quando eri qui.
Passo lo strofinaccio sui ripiani,
e ogni cosa che prendo in mano per ravvivare dalla polvere vecchia è un ricordo.
Il prurito che sento alle mani non è l’allergia, lo so bene.
I pupazzi di quando eri bambina sono malmessi…
Sarebbero da lavare, ma magari si rovinano.
Il leone Felice!
Mi fa ridere ancora oggi, “Felice di avere un padrone” è il nome completo.
Ecco il gattino Bimbodellamamma.
Il pipistrello nero da paura, con gli occhi rosso fuoco, con la suoneria che urla ancora funzionanate,
l’orsa abbracciata al suo piccolo. 
Gigi!
Gigi, il primo bambolotto,
col viso di gomma, senza capelli, il corpo di tela azzurra imbottita.
l’ho scelto perché morbido, tondo, piccolo,
giusto per una bimba di un anno.
L’ho chiamato Gigi perché ci voleva un nome facile…
Acquistato per poche migliaia di lire alla standa
quando c’erano le lire e la standa
Ricordo i compleanni,
e i negozi in cui li ho comprati, i giochi.

Passo a sistemare i libri del liceo, cerco gli appunti con la tua calligrafia.
Ci sarà ancora un tema, con quelle frasi come sms?
Da bambina mi sembrava avessi pensieri così profondi.
E originali, per una bambina.
Ma non ti piaceva scrivere.
Ti piaceva la matematica.
Eri convinta di scrivere bene, questo mi faceva ridere. Guai a riprenderti…
Ma dovevo capire della matematica.
Quella volta che al mare mi hai detto pensierosa
Perché dici che lo yogurt è buono
e la zia dice che fa schifo?
Mi eri sembrata un genio.
La differenza tra valore relativo e assaluto…
Dovevo capire della tua predisposizione per la matematica,
ma forse quella frase non voleva proprio dire nulla.

Libri intonsi.
Quanti ne ho comprati.
I più vecchi te li ho letti io. Letti e riletti.
La cartellina con i disegni,
ecco dov’erano i testi delle fiabe scritte insieme:
Alice siede sotto un albero e ripassa la lezione,
ma non ha una gran voglia,
aspetta il coniglio bianco,
e invece arrivano i sette capretti…
Miscuglio di favole, un gioco.

I giornalini del liceo. Con le vignette le foto e gli scherzi.
I libri di harry potter e quelli sui folletti.
Leggevi poco.

Le foto.
La foto della zia che ti ha tenuto da piccola
e cui hai voluto molto bene,
la foto di Iris, la tua cagnolina,
la mamma e il papà in costume al mare.
Ti piaceva questa foto perché io e il papà eravamo giovani e belli, così dicevi - il mito della bellezza… - o forse perché eravamo insieme e felici.
E la foto di un compagno di scuola, che è in tante altre stanze..

Quanti scontrini …li faccio passare pensando contengano qualche segreto della tua vita… quali acquisti facevi…cosmetici, spesa di alimentari, abiti…cose ordinarie, sono un po’ delusa…
Certo non buttavi via nulla. Biglietti del treno, etichette di vestiti.
Non credo sia solo disordine.
Tirchia? Forse sei tichia, e io no lo sapevo… non l’avrei mai immaginato.
Quante altre cose non so di te?
Non ho avuto abbastanza tempo.
E poi forse ero distratta.
 
Ecco, questo libro, Alice in inglese, non è tuo, era destinato a me, un natale.
Di nuovo Alice.
Pensavo avesse un significato, perché mi vedevi così, come una stralunata e spersa…
Rorse mi piace pensare che mi vedevi così - sciocchezze da psicanalisti –
E dov’è la salamandra di tutti i colori che mi hai preso a Barcellona?
Sono io l’animale che cambia sempre e imprevedibilmente colore?
- Imprevedibile, scostante, ora ridi e ora ti arrabbi -…questo mi dicevi.
E avevi ragione.

Ho trovato la lettera.
La mia lettera.
Sapevo che era ancora lì tra le tue cose.
E’ appoggiata sulla mensola tra fogli messi lì alla rinfusa.
L’ultima volta che sono stata qui era nella scatola dei tuoi ricordi,
una scatola da scarpe contenente foto, cd,  lettere di amori…
se ora è in una altro posto, vuol dire che l’hai riletta.
E’ la lettera che ti ho scritto quando avevi sedici anni e volevi dormire fuori casa,
e né  io né tuo padre riuscivamo ad farci ubbidire.
Le tue istanze di libertà ci sembravano premature, e non ci piacevano le persone che avevi intorno.  Ma eravamo impotenti.
Un’amica  mi ha consigliato di cercare una via diversa per arrivare a te.
Tii ho scritto una lettera, questa lettera.
Per far arrivare l’affetto che la voce dimenticava subito, caricandosi di autorità e rabbiia.
Ora sono stupita dell’attenzione che questo foglio ha ricevuto.
E mi fa sentire un po’ in colpa,
perché la lettera non è stata scritta per esprimere dei sentimenti, peraltro sinceri,
ma per ottenere da te ubbidienza.
Le manifestazioni di affetto non devono essere finalizzate a qualcosa.
Devono essere inutili.
Era una cosa disonesta.
La lettera vera dell’affetto potrebbe essere questa
che tu non leggerai.

Non trovo foto tue,  almeno non recenti. Mi spiace non averne. Ce ne sono al pc, ma non so come vederle.
Ora ho finito.
Spolverato, lavato, riordinato.
Tra due giorni è natale.
Troverai la tua stanza in ordine
se tornerai.



Adelaide e la lucciola


Era il cielo più buio che avesse mai attraversato. Più buio e più silenzioso. E più deserto. Non una luce, non una cometa –  era pur natale -, non una costellazione, non una stella cadente, non una stella qualunque. Non una farfalla, un’ape, un passero, neppure una zanzara…
La lucciola volteggiava sola, senza sapere dove era diretta.  A un certo punto si alzò il vento, e il  cielo buio si trasformò in un mare in tempesta. …Alte onde la sbattevano in ogni direzione. Un grande fragore, proprio come una burrasca. Un’onda più alta la fece atterrare su di un atollo. Era un piccolo atollo, una specie di scoglio roccioso. Restò aggrappata lì, spaventata e ansimante, col cuore che batteva a mille. Incastrata fra due spuntoni di roccia, stremata, si addormentò.

L’astronave volteggiava. Il comandante aveva perso il controllo, forse.
Si fermò all’improvviso. Adelaide attese che la tempesta siderale si placasse. Uscì, nuotò nel vuoto, dirigendosi verso l’atollo. Afferrò saldamente uno scoglio, e si issò su. Era lì per curiosità, non aveva mai visto una lucciola, non ce n’erano su Eden. Per un attimo si allontanò dai pensieri confusi in cui si era addentrata. La lucina minuscola si accendeva e spegneva a intervalli regolari. Era viva, il corpicino tondo si sollevava e si abbassava in un sonno sereno. Si sentiva un respiro lieve, interrotto ogni tanto da un sospiro più profondo. Chissà da dove veniva e chissà se parlava. Il pianeta più vicino era la terra, probabilmente si trattava di un abitante di quel mondo. Assorbita da questi pensieri attese pazientemente il risveglio della lucciola. L’avrebbe accolta con un saluto amichevole in una delle lingue più diffuse sulla terra. Ma quando la lucciola aprì gli occhi e cominciò a sbattere le ali spaventata, un sorriso bastò.
La lucciola scrutava Adelaide da capo a piedi, incuriosita e timorosa. La trovava buffa, con quel ridicolo costumino dorato che lasciava scoperte gambe lunghe e bianche che penzolavano giù dall’atollo, i capelli lunghi di paglia e gli occhi chiari col trucco nero pesante. 

Adelaide trovò naturale la perplessità della lucciola. Allora le parlò. Spiegò che veniva da Eden, posto meraviglioso. Voleva dire paradiso.  Era orgogliosa di appartenere a quella terra.
Un luogo che non conosceva bisogno né violenza. Un pianeta piccolissimo – e fece segno con la mano verso un punto indefinito dello spazio -, che gli astronomi avevano sino ad allora confuso con un detrito vagante. E questo oblio aveva giovato alla quiete e al progresso di Eden.
La lucciola ascoltava seria e attenta.
-          Progresso…il progresso in verità ha avuto ormai termine, la perfezione è stata raggiunta mille anni fa. Società perfetta la nostra, esseri perfetti i suoi componenti. Gli abitanti di Eden nascono già così, belli, intelligenti, portati per le arti, la musica, le lettere, cioè perfetti, programmati per una vita felice. Non soffrono, non si ammalano, non desiderano cose impossibili, non conoscono inganni e tradimenti... Muoiono, ma sarebbe meglio dire che la loro vita ha una scadenza. Il loro tempo finisce. Tutto programmato.
La lucciola ascoltava, e intanto cercava nel blu quel punto minuscolo…
-          Come dicevo, non c’è molto spazio su Eden, ma l’intelligenza dà sempre soluzioni: gli abitanti del pianeta vivono in un flusso virtuale, specie di 3d, che contiene tutto ciò che rende vivace l’esistenza, amicizie, affetti, amori, luoghi, suoni, sapori… stanno fermi, e la vita gli gira intorno.
La lucciola abbassò le ali, con espressione poco convinta.
-          E’ mondo di uguali, senza poteri, senza ingiustizie, senza risorse cui ambire, dato che le risorse sono di tutti.
Sorrise timidamente la lucciola, e la sua luce di fece più bianca. Vicino alla splendida edeniana si sentiva così goffa, con la sua pancia tonda luminosa, simile a una lampadina, e le sue ali tozze.
-          Ma un problema c’è su eden, un unico problema ma assai grave, che è stato tenuto segreto ai più. – continuò Adelaide. -  I tre saggi, i controllori della perfezione, sanno da tempo che l’enorme quantità di energia che alimenta la perfezione e riscalda le uova nella grande incubatrice comporta degli inconvenienti.
-          Incubatrice?
-          E’ la macchina che ha dato a tutti noi la vita, che risclalda e porta a maturazione il cocktail di geni selezionati.
-          La perfezione…
-          Certo. L’energia che serve per l’incubatrice è disponibile in quantità infinita. Ma le scorie, che farne! Non c’è luogo dove buttarle su Eden, dove tutti sono amici e fratelli. Un mondo di uguali comporta qualche problema, non si può dare la morte ai propri simili…
La lucciola annuì.
-          I saggi hanno trovato la soluzione: portare le scorie lontano. Non ci sarebbero stati problemi etici, bastava scegliere pianeti deserti…
La lucciola scrollò il capo.
-          Hai ragione, non ci sono più luoghi disabitati. I saggi hanno allora scelto un pianeta abitato da esseri che con noncuranza avvelenano altre terre. Dello stesso male periranno…
La lucciola sospirò…
-          Ma c’era sempre un nodo. Chi avrebbe accompagnato le scorie su un altro mondo non avrebbe atteso la propria scadenza. E nessuno su Eden aveva avuto mai una morte violenta. E come scegliere l’uomo predestinato a una fine prematura? Si misero allora i saggi a cercare un segno di imperfezione. E io…
-          Tu?
-          Io,  Adelaide fui scelta, perché difettosa.
La lucciola scrollò la testa contrariata. Non capiva. Non sembrava difettosa Adelaide…
-          Su Eden non c’è storia di esseri difettosi, non ci sono mai stati poveri, malati, stranieri, pazzi, idealisti, delinquenti. Ma la necessità portò i tre saggi a trovare un piccolissimo difetto: la mia pelle è bianca e trasparente, come vedi…
-          Bianca sì lo sei, bianchissima…
-          …  mentre i miei compagni sono splendidamente azzurrini. Questo colore èna mutazione di poca importanza, ma in quel momento …tornò utile…Certo, la cosa mi fu spiegata per bene, sin da bambina, come si confà ad un mondo così civile. Mi sarei sacrificata per il mio popolo, il mio arrivo era atteso. Non dovevo pensare all’assenza di colore come ad un male. Era un segno. L’eletta.
Adelaide tirò fuori dalla tasca della tuta una palla di cristallo verde. Il cuore luminoso era un centimetro  cubo di beta4c.

-          Ma tu lucciola, da dove prendi l’energia? E che ne è delle tue scorie? E la tua luce a che serve?
-          Non so da dove viene, non so niente di energia e scorie ne faccio pochissime... La mia luce non serve a quasi a nulla, che io sappia. Fa sognare uomini insonni e pensierosi, illumina gli sguardi degli innamorati nelle notti d’estate, spruzza polvere argentata sui ricordi dei vecchi, quando parlano di un tempo in cui noi lucciole eravamo in tante. Fa ridere i bambini quando mi poso fra le loro mani, lasciandogli credere che sono stati loro a catturarmi. Sciocchi, li frego sempre. Non serviamo a molto noi lucciole, vedi. Stiamo scomparendo, e nessuno ci fa caso. Sono l’ultima io, Lizzi…
Adelaide guardò l’orologio.
-          Raccontami ancora..
-          Vuoi che ti parli delle cose brutte del mondo? Tra pochi minuti tutto finisce, mettiamo da parte i pensieri tristi.
-          Ancora pochi minuti e lancerò la sfera là in quel grande mare verde, vedi. Non deve essere un lancio preciso, basta che finisca in acque profonde, così irradierà più lentamente. La vita finirà sulla terra e anch’io finirò. E anche tu.
Però per il poco tempo che mi resta voglio vedere qualche attimo delle vite imperfette e infelici su quel pianeta.
-          Vedi quella luce, dove finisce il mare verde? – la accontentò Lizzi.
-          Sì. Un’altra lucciola?
-          No, è un faro. Guida il ritorno a casa dei marinai.
-          Guiderà anche me, quando lacerò la sfera, tra pochi istanti.
-          Lì vicino c’è il porto. C’è una locanda, in ogni porto c’è una locanda, dove i marinai bevono e giocano a carte. Ora escono due uomini.
-          Gridano, si insultano, perché?
-          Litigano per una donna. Sono ubriachi.
-          Guarda, il più grosso spinge l’altro contro il muro. Tira fuori un coltello!
-          Lo ucciderà!
-          Continua a parlare con la voce rotta,  sembra voglia piangere.
-          Si ferma ora, che fa? Alza gli occhi.
-          Ci vede? Guarda noi?
-          Sttt…Senti? – riprende Lizzi.
-          Un miagolio, un pianto? Da dove viene?
-          E’ un bimbo.
-          Un bimbo? – Adelaide scrolla le spalle - non ci sono bambini su Eden, non so riconoscerne il pianto.
-          Un bimbo piagnucola così quando la mamma lo culla e lui non vuol dormire. Resiste, ha la testa dura, vuole vincerla lui.  Vedi, la mamma gli sta cantando la ninna nanna, e cullandolo si sta addormentando, vicino alla finestra, nella casa vicino al porto. Ma ora alza gli occhi…
-          Guarda, Lizzy, la casa a fianco... Che fa quel vecchio che respira a fatica?
-          Aspetta una dolce morte.
-          E la ragazza seduta vicino a lui?
-          Gli legge parole lievi, che allietino il passaggio.
-          Voglio sentire, forse mi saranno d’aiuto.
-          Ma si è zittita. Il vecchio guarda il cielo, e lei segue il suo sguardo sereno e un po’ assente.
-          Lizzy, il marinaio… sta affondando il coltello…
-          Non guardare…
Lizzi sbattè le ali, e volò sulla spalla di Adelaide.
-          E’ ora. – Adelaide abbassò lo sguardo
-          E’ ora. – Lizzi abbassò lo sguardo.
-          Un attimo ancora… Voglio vedere nei cibetesti, in questi pochi attimi che restano, se basta un sacrificio, un sacrificio ingiusto, il mio, a fare di Eden un mondo imperfetto. Ingiusto.
-          Ormai non serve…
Adelaide si rigirò fra le mani la sfera verde, strasparente e luminosa.
Non la lanciò, la lasciò scivolare attraverso il cielo ormai calmo, in direzione dell’oceano verde, guardando il faro, la locanda, le finestre illuminate vicino al porto. Il bambino era ancora sveglio, continuava con il suo gorgoglio appagato, e guardava il cielo anche lui, allungano una manina paffuta…eccola là la lucciola, com’era volata lontano….
La sfera fece sollevare pochi spruzzi e fu risucchiata dalle acque profonde dell’oceano.
Così, in una notte di cielo sereno, la missione di Adelaide era compiuta.